In bettola. ‘Capo, me ne porti un’altra?’

Passeggiate in montagna, gite al lago, ristoranti stellati. Ci sono mille modi per riscoprire il Ticino, e le bettole sono un buon punto di partenza.

Di Lorenzo Erroi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Supponiamo di avere a che fare con quello strambo lettore che non saprebbe distinguere un crostino al caviale da un kebab, che ha il terrore di buttarsi in acque piene di gorghi e lucciperca, e che al nobile profilo delle montagne preferisce un paesaggio fatto di cantieri, gru, cemento armato. Dove lo mandi, uno così, in questi mesi spaventati dal coronavirus? 

Alcuni punti fermi

Già, la bettola. Non mi sento di consigliarne una in particolare, a ciascuno la sua. Basta selezionarla secondo alcuni criteri per nulla categorici, ma utili al novizio. 
Regola numero uno. La bettola deve avere un oste – o un’ostessa – rigorosamente malmostoso. Uno che ti guarda dal basso dei suoi duecento chili, sbatte lo straccio sul lavandino e sbuffa, come se servire ‘lui lì’ gli pesasse più di dar via un rene. 
Regola numero due. La bettola seria è quella nella quale ti senti un estraneo. È una cosa difficile da spiegare, ma facile da cogliere: è il locale giusto quando ci entri e ti guardano tutti come a dire “chi è questo minchione?”. Parafrasando Marx (quello simpatico): non vorrei mai far parte di una bettola che accettasse uno come me tra i suoi avventori. 
Regola numero tre. Le suppellettili del posto devono trasudare almeno cinquant’anni d’usura. Banconi zincati, falso legno alle pareti, tavolini sbrecciati, posacenere in ghisa sponsorizzati da marche di sigarette ormai scomparse, ‘cagnomatic’ per la lotteria degli habitués: tutto fa brodo. 
Regola numero quattro. Il locale non deve avere menù di alcun genere. Il bicchiere di Nero d’Avola in offerta? Via da lì. La lavagna con scritto “stasera spritz”? Palla lunga e pedalare. La bettola seria non si promuove. La bettola seria schifa il prossimo – vedi sopra – dunque l’unica cosa appesa alle pareti sarà il post-it coi numeri d’emergenza, in caso di risse (gl’infarti invece, di solito, sono retti con dignità e corretti col Montenegro).


Vita e personaggi d’osteria in alcune illustrazioni del XIX secolo – © iStockphoto

Occhio ai ‘residenti’

Queste sono le basi, ma trovare la vera bettola dell’anima richiede un salto di qualità: un istinto e uno spirito d’osservazione che vanno ben oltre. È tutta una questione d’intuito, come distinguere il suono d’un vinile da quello di un compact disc. Un aiuto: osservate i presenti. La bettola seria presenterà almeno un paio di personaggi che sono considerati universalmente un certificato di qualità. 
L’avventore storico. È almeno dal ’59 che sta lì dall’apertura alla chiusura, monopolizza i giornali per ore, tira minuscole sorsate di vino e boccate di Mary Long per farsi bastare la pensione, e a qualsiasi frase che oltrepassa la sua sordità reagisce dicendo “io sono anni che ve lo dico”. 
La sciantosa. Ha lo sguardo perso nel vuoto ma s’illumina quando parte il karaoke, reclamando il microfono per memorabili versioni di Caterina Caselli e Nella Martinetti. Si fa la permanente dal carrozziere, ma per uno chasselas è pronta a raccontarvi di quando “son stata Miss Carnevale!”: datele retta, e imparerete molto. 
Il rigido. Occupa ogni giorno la stessa posizione come se si trattasse di difendere la Linea Gotica e non parla mai. Ogni tanto è utilizzato dal(la) barista per mestieri come cambiare il fusto della birra, sistemare una lampadina, sturare il cesso: ma un po’ ne soffre. 
Lo spacciatore. Entra ed esce dal locale ogni due minuti. Ogni tanto arriva qualcuno e gli fa “come stai?”; lui infila una mano in tasca, fa un cenno con l’occhio stile Paul Newman e all’improvviso mezzo bar lo segue in cortile. Vai a capire.


Vita e personaggi d’osteria in alcune illustrazioni del XIX secolo – © iStockphoto

Altri dettagli secondari, ma rivelatori 

La musica. Che si tratti dei Beatles o di technopop tedesco, deve suonare malissimo e risultare del tutto incoerente rispetto al locale. Se vedete uno che vomita in un vaso coi gerani di plastica, e sotto sentite la Callas che canta “Sempre libera degg’io” , ecco: siete nel posto giusto. 
I piattini col mangiare. Se qualcuno li chiede dicendo ‘mi porti due stuzzichini?’ , il barista tira fuori una doppietta e gambizza lo sventurato (lo stesso accade con quelli che ‘mi porti una bollicina?’). In ogni caso la bettola di qualità deve garantire pane raffermo, patatine usate per assorbire tutta l’umidità del locale e al sabato, quando la creatività prende il sopravvento, una salutare peperonata all’amianto. 
Il pavimento. Che sia per gli sputi di tabacco fermi lì dalla guerra, il fango dei secoli, il cappuccino rovesciato l’altroieri che “lascia lì, tanto poi mercoledì passo il mocio” , il pavimento non deve mai, dico MAI tradire il suo colore originale. 
Il dehors (come dicono quelli che hanno studiato). La bettola seria potrebbe anche avere un bellissimo terrazzo con vista panoramica su boschi e cascate, ma sceglie di mettere i tavoli dall’altro lato, sul marciapiede intriso di gasolio, a due passi dalla fermata dell’autobus. Si sa d’altronde che il rombo del turbodiesel dà più soddisfazione, quando cali la briscola. 
Ecco, qualche dritta ve l’ho data, ma non escludo che la miglior bettola possa smentire tutto quanto. Certi posti sono fatti per stupire. L’importante è esserci, sorseggiare una Feldi tiepida, allungare le gambe e poter dire ‘hic manebimus optime’. Che tradotto significa: portamene un’altra.


Vita e personaggi d’osteria in alcune illustrazioni del XIX secolo – © iStockphoto

DI PAROLE, PAGINE E BICCHIERI

Molto è stato scritto per orientarsi nel vasto mondo delle bettole, delle taverne e dei bar. Nel suo Strade blu – un picaresco giro in tondo per gli Stati Uniti delle strade secondarie e di cittadine con nomi come ‘Scratch Ankle’ e ‘Dime Box’ – William Least Heat-Moon suggerisce di sceglierle a seconda del numero di calendari appesi dietro al bancone: si va dall’anonimato dei locali che ne hanno uno solo a quelli, leggendari, che ne contano cinque o sei (“non parlatene in giro, o diventeranno una catena”). 
Con Bar Sport, invece, Stefano Benni ha descritto tutti gli aspetti di un tipo di bettola che riesce a replicarsi pressoché identica in tutto il mondo (c’è un Caffè dello Sport anche a Boston, e anche lì vi garantisco che si trovano il pensionato con la cravatta in lamierino, il ‘cinno’, l’esperto di pallone e la Luisona, pasta abbandonata nella bacheca da tempo immemore e venerata dagli avventori, che ne traggono le previsioni del tempo). 
C’è anche chi consiglia cosa bere e come berlo: Optimus Potor, ossia il vero bevitore di Paolo Monelli, uscito nel 1963 e finalmente ristampato da Novello. E cosa fare se si esagera: nel capitolo sui postumi del Taccuino di un vecchio bevitore – ‘Metafisica del giorno dopo’ –, Kingsley Amis consiglia di ascoltare Il cigno di Tuonela di Sibelius e di leggere Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyn, perché “il resoconto della vita in un campo di lavoro russo vi servirà a ricordare che in giro c’è un mucchio di persone che fa fronte a un’esistenza maledettamente peggiore della vostra”). Invita anche a non prendere troppo sul serio i nostri sensi di colpa, quando alla mattina ci svegliamo nel nostro letto come lo scarafaggio della Metamorfosi di Kafka: “Quando quell’inesprimibile composto di depressione, tristezza – le due cose non sono uguali –, ansia, odio verso voi stessi, senso di fallimento e paura del futuro inizia a impossessarsi di voi, ricordatevi che quelli che avete sono i postumi di una sbornia: non avete avuto un lieve ictus, non fate poi così schifo sul lavoro, la vostra famiglia e i vostri amici non si sono uniti in una cospirazione del silenzio pur di non dirvi in faccia che razza di merde siete, e non state finalmente vedendo la vita per com’è davvero”.
Un’alternativa salutare può essere quella di frequentare tutte le bettole che si trovano nei libri. Ce n’è un milione, ne scelgo un paio. Quella da cui Joseph Roth vede arrivare il fascismo a Vienna nella Cripta dei Cappuccini. “Adesso abbiamo un governo di popolo!”, esulta uno sgherro entrando, e lui da dietro al bicchiere, con lo sguardo acciaccato e un cane tra le gambe: “Appartengo a un mondo ormai scomparso. Un mondo dove un popolo doveva lasciarsi governare, e non poteva governare da sé, a meno che non volesse smetterla di essere popolo”. Oppure – passando alle autobiografie – Il bar delle grandi speranze di J.R. Moehringer e quelli della Brooklyn di Pete Hamill (A Drinking Life), dove padri irlandesi immigrati accompagnano i figli sulla cattiva strada: posti dove tutti “indossavano cappelli, fumavano sigarette, ridevano sguaiatamente e bevevano birra da grandi bottiglie marroni”. Infine, il pub ideale descritto da George Orwell nel saggio The Moon Under Water: “Un pub che offre stout alla spina, un camino, pasti a buon mercato, un giardino, cameriere materne e nessuna radio”. A ciascuno il suo.

Articoli simili