Quando l’emancipazione partì in bicicletta

Solo poco più di un secolo fa andare in bicicletta era considerato uno sport non adatto alle donne. Anzi, pericoloso…

Di Roberto Roveda

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione

Il 2021 è stato l’anno della prima edizione del Tour de Suisse di ciclismo femminile. Quale occasione migliore per ricordare come proprio la bici abbia dato un contributo non da poco alla parità di genere. Non a caso nel 1896 una delle pioniere della lotta per i diritti delle donne, l’americana Susan Brownell Anthony (nell’immagine qui sotto, ndr) affermò che andare in bicicletta era l’attività che più di ogni altra stava contribuendo all’emancipazione femminile. La bici, infatti, permetteva di muoversi in piena libertà e di spostarsi in autonomia in un’epoca in cui era considerato scandaloso per una donna andare in giro senza essere accompagnata da un maschio di famiglia – padre, fratello o marito che fosse –, peggio ancora se da sola. Insomma, quello che oggi ci appare abituale come una pedalata “tutta femminile” era una vera e propria conquista per le donne di poco più di un secolo fa. Anzi fu solo il primo passo per combattere una serie di pregiudizi come ci racconta Antonella Stelitano in Donne in bicicletta (Ediciclo Editore, 2020). In questo interessante saggio e ben documentato viene ripercorsa la storia del binomio donna-bici, un resoconto che è anche una vicenda di lotta a stereotipi e preconcetti. Andare in bicicletta, fin dall’apparire di questo mezzo rivoluzionario – pensateci: la prima “macchina” pensata per muoversi in completa autonomia! –, venne, infatti, considerata un’attività tutt’altro che femminile.


Susan Brownell Anthony (1820-1906).

Il falso mito del ‘sesso debole’

Prima di tutto, più di un secolo fa, era scandaloso vedere delle donne in pantaloni o peggio in pantaloncini nell’epoca delle gonne lunghe e dei corpetti. Le coraggiose che si abbigliavano da cicliste venivano apostrofate come rappresentanti di un fantomatico “terzo sesso” in un articolo della Gazzetta dello Sport del 1896. Inoltre, era diffusa l’idea che alcuni sport come la bicicletta distruggessero la femminilità, come scriveva la rivista Almanacco dello Sport nel 1914: “Non amiamo la donna che corre in bicicletta, ma adoriamo tutti gli sport dove la donna vi appare ancora donna”. Il ciclismo era poi nel mirino di illustri luminari della medicina come attività pericolosa perché poteva provocare insano calo di peso, danni ai polmoni, intorpidimento della mente, malattie agli occhi. Per le donne si aggiungevano seri rischi di sterilità totale e di incorrere in ripetuti aborti. Il pedale poteva poi deformare i delicati piedi delle ragazze! Se non bastavano queste controindicazioni ve ne era una definitiva: pedalare era troppo faticoso per il “gentil sesso”, anche perché le prime biciclette pesavano in media ben 20 chilogrammi. Pazienza che poi le donne si spaccassero la schiena nei campi o in fabbrica, la bici era davvero troppo… soprattutto per benpensanti e affini. Insomma, una donna su una due ruote qualche decennio fa dava scandalo, segno che certi comportamenti che oggi condanniamo – giustamente, ci mancherebbe! – in nazioni come l’Afghanistan non sono poi tanto distanti da noi, almeno dal punto di vista temporale.


Ramon Casas (1866-1932), ‘El descanso de los ciclistas’.

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