Angélique Beldner: una questione di pelle?

Il percorso, a ritroso ma non solo, di una donna a cui oggi – nel 2021, in Svizzera – non è permesso essere come tante

Di Anna Riva

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione

Le parole, per un giornalista, sono spesso una seconda casa. Una galassia prossima e amata, agevolmente modellabile da chi quotidianamente la maneggia per mestiere. Eppure, la scorsa estate, la moderatrice SRF Angélique Beldner si accorge che la lingua, la sua lingua, non le basta più. È l’estate dell’uccisione di George Floyd. Nel frastuono delle proteste, oltreoceano e non, si rende conto che di razzismo non è in grado di parlare, le mancano gli strumenti, un codice. E decide di contrastare questa incapacità, lei che per 44 anni ha taciuto e scusato, incassato e nascosto.

Nera? Angélique Beldner non lo era, non lo era mai stata. Certo, non che in 44 anni di vita non fosse mancato un certo tipo di esperienze; situazioni dolorose, dotate di vita propria e di una propria aggressività. Ma nulla che valesse il fiato necessario per parlarne, e tantomeno l’energia per scrivere un libro. Invisibile, insignificante doveva essere quella carnagione più scura del dovuto, per la donna svizzera nata a Berna dal padre originario del Benin. Non foriera di svantaggi, né di agevolazioni. Una filosofia che credeva pagante, finché l’estate 2020 non era arrivata per dimostrarle il contrario. L’estate dell’uccisione, a Minneapolis, di George Floyd, delle manifestazioni di protesta che dall’America avevano raggiunto la Confederazione, costringendola a confrontarsi con le sue, di colpe. Un’estate “dolorosa”, così la definisce Angélique, in cui il colore della sua pelle d’improvviso non ha più potuto essere ignorato. In cui la Svizzera si è svegliata senza parole, sprovvista di una terminologia adeguata per definire e condannare il razzismo. In cui Angélique Beldner è diventata Nera, con la enne maiuscola, coraggiosa espressione di autodeterminazione.


© SRF/Oscar Alessio

I soliti fraintendimenti

Un’espressione che s’inserisce, si deve inserire, in un nuovo linguaggio, un codice consensuale, condiviso da tutti, che riconosca la parola discriminante. Non solo gli insulti penalmente rilevanti, ma anche le espressioni dalla connotazione negativa utilizzate ancora oggi con una certa disinvoltura. Un codice che fotografi impietoso le esperienze difficili da trasmettere alla maggioranza, quelle per cui chi non è costretto a viverle ha spesso una dozzinale spiegazione a portata di mano: ‘Non dovevi intenderla così, hai frainteso’. Sono le esperienze che accomunano Angélique a me, malgrado le radici agli antipodi. E mi rendo conto che è sufficiente una dose di melanina un po’ più generosa per unire due individui e creare una lotta comune. “Un nuovo linguaggio è possibile, ma dobbiamo cercarlo tutti insieme”, afferma Angélique. “Io oggi ho trovato la mia lingua, ma ho potuto farlo perché c’erano persone disposte ad ascoltare. Sarei tornata subito a tacere, se avessi avuto l’impressione di non essere mai compresa. E solo cinque anni fa le cose sarebbero state diverse, il problema non sarebbe stato identificato. Un problema che non è nostro, non è di chi è colpito”.

Gente di ‘seconda classe’

Non è quindi suo né di Martin R. Dean, scrittore svizzero nato nel canton Argovia e insieme ad Angélique coautore del libro Der Sommer, in dem ich Schwarz wurde (“L’estate in cui sono diventata Nera”). L’opera, generatasi dai continui scambi tra i due seguiti alla scorsa estate e dall’omonimo film documentario prodotto da SRF, si congeda da un silenzio che non può che essere dannoso per abbracciare e promuovere il dialogo e la comprensione reciproca. “Una volta sono salita in treno e ho raggiunto la prima classe, e una signora mi ha esortata a cambiare vagone, partendo dal presupposto che fossi destinata alla seconda classe. E quanto spesso in un negozio sono stata accolta da persone che mi hanno parlato come se fossi stupida. La società deve cambiare, e deve capire che lo fa non solo per amor mio o tuo, ma anche per sé stessa”.
Il nostro incontro si avvia verso la conclusione. Vorrei parlare di tante cose, di cose che richiedano meno energia. Della nostra professione comune, per esempio. Dello spettacolo di luci che impreziosisce, in questo periodo dell’anno, la Piazza federale di Berna. Ma non c’è tempo. Non oggi. Ci congediamo, e le parole si accalcano nella mia mente. Mozziconi di termini, tentativi di linguaggio, i primi passi della traduzione dal tedesco all’italiano, una serie di giravolte con espressioni di cui spesso – critical whiteness, colorblind racism – esiste solo la forma inglese. Come portare questo idioma dalle grandiose aule universitarie ai treni, ai negozi e alle strade delle città? Passeggio verso Piazza federale e attendo che il frastuono si calmi. Le luci baluginano sulle facciate degli edifici. Accantono il mio usuale cinismo e riconosco che è davvero suggestivo. Mi riprometto di parlarne con Angélique. Domani.


© SRF/Oscar Alessio

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