Amelia Rosselli, il coraggio dei fragili

Poetessa italiana morta suicida nel 1996, la cui cifra è un linguaggio come un ‘ingorgo di febbre e sarcasmo doloroso’
Di Marco Stracquadaini
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
La presenta l’editore Garzanti: “Amelia Rosselli (Parigi 1930 – Roma 1996), figlia dello storico e filosofo Carlo Rosselli e di madre inglese, è vissuta in Francia, Inghilterra e Stati Uniti (con una parentesi svizzera; ndr) prima di stabilirsi a Roma, dove è morta suicida. I suoi versi la collocano in primissimo piano nella ricerca letteraria contemporanea. La sua prosodia, fortemente innovativa, fa uso della parola affrancandola parzialmente dalla convenzione linguistica. Il suo linguaggio diventa così ‘pozzo della comunicazione’, ingorgo di febbre e di sarcasmo doloroso nell’uso sapiente di un’altissima scrittura poetica”.
La poesia è dei giovani e dei folli. Un poeta adulto non si concepisce. Si concepisce perché alla fine ci si adatta a tutto. Esaurita la follia della giovinezza, se non entri in quella vera e nella sradicatezza e nell’anomalia, se non resti integralmente giovane e fuori dal mondo, la vera poesia diventa impossibile.
Si può arrivare all’alta letteratura, perfino, ma forse è troppo poco. L’ipotesi si può verificare caso per caso. Si prenda un’antologia della poesia italiana consolidata dal tempo – nei Poeti italiani del Novecento di Mengaldo, Amelia Rosselli è la sola donna – e si sondi ogni presenza. Nemmeno i grandi, se sono ancora loro, resistono. Il Montale degli Ossi di seppia, che compie un secolo quest’anno, e delle Occasioni oscura i successivi e fa sparire l’ultimo. A volte accade che il poeta vecchio ritrovi a un tratto l’innocenza del giovane, come nel caso di Saba. D’altra parte è quasi una regola di natura che si cominci poeti e si prosegua narratori.
Amelia Rosselli uscì dalla giovinezza, quasi ancora dall’adolescenza, ed entrò nella follia senza soluzione di continuità. E senza uscire dalla giovinezza. Follia vuol dire non voler lasciare l’innocenza? Ma anche la poesia autentica è questo. Alla terza grande perdita della sua vita, come vedremo, si chiude in casa per due settimane a scrivere versi. Ha 23 anni. Fu l’inizio della poesia e della malattia psichica. Che non le impedì di vivere, d’altra parte, come poté e come soprattutto volle.
Nata a Parigi
Nasce a Parigi nel 1930. Quando ha sette anni, il padre Carlo Rosselli, fondatore del movimento Giustizia e Libertà, viene ucciso insieme al fratello Nello da emissari francesi del governo fascista italiano. Da Parigi la madre Marion, inglese, si rifugia in Inghilterra con i tre figli. Da lì passa negli Stati Uniti. “Come abbiamo potuto vivere, poveri com’eravamo – dirà in una breve intervista televisiva – è un mistero. Credo grazie ad amici antifascisti”. Nel ’48 tornano in Italia e in quello stesso anno Amelia andrà a vivere a Roma, sola. Un anno dopo muore la madre che era di nuovo in Inghilterra. Si rimprovererà sempre di esser stata lontana in quel momento, come s’incolperà della malattia di cuore della madre, iniziata con la sua nascita. Due anni dopo conosce il poeta lucano Rocco Scotellaro ed è il secondo o terzo evento traumatico, prima nell’amore o nell’intensa amicizia, poi, solo tre anni dopo, nella morte di costui. Fu un amore-amicizia squilibrato: Amelia sentiva il bisogno di un padre o un fratello maggiore più che di un amante. E nel poeta del popolo e delle lotte sociali poteva rivedere compiutamente la figura del padre. Questo secondo o terzo “abbandono” segna l’inizio dello squilibrio psichico e insieme della poesia. La stagione più intensamente creativa, considerando gli anni delle composizioni, si può racchiudere in una ventina d’anni, da Variazioni belliche (1964) a Serie ospedaliera (1969) a Documento (1976). Ci sono altre pubblicazioni di rilevanza poco minore: Appunti sparsi e persi (1983), Diario ottuso (1990). In Sleep (1992) raccoglie le poesie in inglese scritte costantemente negli anni.
© Sothebys
Alcuni titoli di Rosselli editi da Garzanti sopra ‘Ida in un interno’ (1893) del pittore danese Vilhelm Hammershøi
Una lingua oscura, attratta dall’equivoco
Divisa fra due lingue fin dai primi anni – tre con il francese – le pratica entrambe come poetessa. Si può ricordare la vicinanza appartata o ironica al gruppo ’63, l’importanza decisiva degli studi musicali, in sé e per le ricerche metriche della sua poesia. Ma questa è la superficie. L’orfanità dà l’impronta a tutte le raccolte, nell’ultima facendosi più esplicita e dai modi colloquiali. Come investita da più forze allo stesso tempo – dei più duri eventi dell’esistenza e dell’azione delle due o tre lingue – non si sottrae a nessuna di esse.
Ne subisce le pressioni provando a deviarle sulla pagina senza ansie di ordinarle. Il risultato è una lingua oscura, attratta dall’equivoco grammaticale e sintattico, dall’incanalare le parole in un unico flusso, indifferente alla razionalità e alla limpidità dei significati.
Questa è la poesia e della follia si è accennato, forse concedendole troppo spazio. È diagnosticata come schizofrenia paranoide. Del poco che si può dirne, è che radica nella scomparsa del padre e nei traumi-abbandoni successivi. In certi momenti di crisi grave si vede perseguitata politicamente, come accadde al padre. Quando il padre morì, la madre chiese a lei che aveva sette anni, al fratellino Andrea che ne aveva sei, se conoscessero la parola “assassinio”. Basta a lasciar intuire quale è la sua infanzia, tra un genitore ucciso e la madre dalle idee pedagogiche apertissime. Scriverà a Scotellaro: “Mi avessero dato l’affetto che mi dovevano. O no, avrei dovuto morire con loro, forse”. “Ora mi trovo ad affrontare – confessa a Sandra Petrignani in un’intervista – una seconda metà dell’esistenza a cui sono completamente impreparata e che mi interessa fino a un certo punto”.
Il coraggio dei fragili
Davanti alla vita e al destino di Amelia Rosselli, come in non molti altri casi, pensi che il coraggio di alcuni fragili sia difficilmente pareggiabile. Quattro o cinque volte in un secolo, forse meno, nei vari Paesi o lingue il poeta torna Poeta. Totalmente vulnerabile per condizione, indole, scelta o per i tre aspetti insieme, al margine di ogni norma sociale, preda di tutte le passioni e insieme, a volte, distante da tutte.
I versi, estranei a ogni precedente regola o dentro in profondità per scardinarle tutte. Tante oltranze non possono reggersi impunemente, ma il primo a saperlo è la diretta o il diretto interessato. L’innocenza dei poeti sa cos’è l’astuzia.
“Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi”.
‘Non pensavo di vivere a lungo’
Ogni suicidio è diverso dall’altro com’è diversa ogni morte. Non tutti sono una resa. In quello di Primo Levi si vedono forse una fragilità e una prostrazione dopo una vita forte e resistente. In quello di Pavese troppo sconforto, come sappiamo dal diario. Una vulnerabilità che si regge miracolosamente per anni finché si spezza. I suicidi di Pavese e Levi si sovrappongono alla lettura quasi da impedirla. Non così forse per Amelia Rosselli. Esistono una naturalezza e una neutralità del suicidio? Ci sono suicidi di morte naturale? “Non ci ha colti alla sprovvista”, racconta un’amica della poetessa. Aggiungendo che non si poteva conoscere il giorno, certo, ma era come una vita che si esauriva, che terminava.
Pavese morendo cita Majakovskij. Si accomiata ripetendo nel biglietto lasciato – “Niente pettegolezzi” – la raccomandazione che lasciò il poeta russo: “Non fate troppi pettegolezzi”. E Amelia Rosselli lascia una citazione non scritta. Attua il suo gesto lo stesso giorno in cui lo decise la poeta amata e tradotta Sylvia Plath, l’11 febbraio. Era il 1996 e aveva 66 anni. “Non pensavo di vivere a lungo… credevo romanticamente di bruciarmi entro i quarant’anni al fuoco di un rischio troppo grosso, quale è stato la scelta della mia vita. La scelta della poesia come l’ho vissuta, come l’ho voluta io”.