Una ragazza sola al ristorante (per chi vuole ancora crederci)
“C’erano solo lei e la nebbia che la sospendeva dal mondo, e quanto avrebbe voluto sentire sospesi anche i suoi pensieri”
Di Jacopo Scarinci
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato settimanale de laRegione
Erano dipinte dal freddo le sue guance rossissime quando entrò al Gallo Nero. Di venerdì sera alle nove e mezza, figurarsi. ‘Ma sì, proviamo’ si disse girando l’angolo da Strada Garibaldi. Le andò bene, si era appena liberato un tavolo e l’oste la fece accomodare. Si guardava attorno, spaesata in una sala che conosceva a memoria. “Quello stronzo”, mormorò per un istante prima di chiudere forte gli occhi e scuotersi dal viso e dalla mente quanto era appena successo. Riaprendosi, le palpebre lasciarono un velo di lacrime che provò a ricacciare indietro una, due, tre volte ma che presto si trasformò in un paio di gocce gemelle che riuscì a fermare prima che raggiungessero gli zigomi.
Sorridendo di sé stessa guardò il menu, e pensò alla fame che le era esplosa all’improvviso. Il pranzo saltato, perché occupata a farsi lasciare dopo sei anni da quel coglione che voleva sposare, non diede prova di sé fino a pochi minuti prima. Quando all’improvviso lo stomaco si allargò. ‘Perché no?’, si disse. ‘Perché no’. Si sentiva fiera di sé a mangiare da sola, in mezzo a tante coppie innamorate e alle immancabili tavolate. ‘Sì, io sono in grado di mangiare da sola nel nostro posto’. La paura era una sola: che chiunque venisse a prendere l’ordinazione la notasse da sola e le chiedesse il perché. Ma avrebbe risposto. Eccome se avrebbe risposto. ‘Chi mi impedisce di dire che sono stata lasciata e chi mi impedisce di voler comunque della torta col salume’, non sarebbe stato difficile.
Eppure la guardava con terrore quella giovane cameriera che ha ai piedi le Vans nere sia con 40 gradi sia quando nevica, mentre si avvicinava taccuino in mano. Un pathos enorme sciolto da un frettolosissimo “Ciao dimmi” dovuto al fatto che tra controlli del green pass, pienone e il solito casino da venerdì la ragazza non aveva tempo neanche per vivere. “Ecco ciao… Sì, torta e salume per favore”. “Da bere?”. “Rosso, una bottiglia”. “Lambrusco?”. “No, qualsiasi cosa ma un Riserva. Forte. Almeno 2015”. “Ok vedo, a dopo”.
Ti ricordo ferma in piedi, in silenzio, sotto la pioggia
mentre io correvo verso il tuo cuore per esserti vicino.
E ci baciavamo mentre il cielo
ci cadeva addosso
stringendoti stretto.
Così come sempre ti stringevo quando avevi paura.
(da ‘Pictures of You’, The Cure, 1989)
Tanto ci si lascia…
‘Non è stato difficile, vedi?’. Li vedeva quei piccioncini mano nella mano, vedeva quegli sguardi assorti perdersi negli occhi che erano di fronte esattamente come facevano i suoi fino a poche ore fa. Niente finisce all’improvviso ma ogni volta si è portati a crederlo e lei lo credeva fermamente, non c’era speranza. ‘Quello stronzo’. Ma non era ancora il tempo di passare al setaccio gli ultimi tempi in cerca di segnali, indizi sul fatto che ci fosse un’altra. Quella sera era per lei. E la torta era fritta al punto giusto, croccantissima nelle parti unite, morbida e calda come il fuoco all’interno. Crudo, culaccia, culatello, salame di Felino. Una fetta alla volta, il conforto del cibo, il calore di quel cabernet che la ragazza con le Vans le aveva portato scegliendo a caso ma prendendoci. Stava meglio Sara. Il respiro era più regolare, ed era sempre più conscia del suo posto in quel ristorante. Passava dal ‘tanto vi lasciate’ quando lo sguardo si posava sulla coppietta di turno allo squadrare i piatti che vedeva passare. Perché con cosa continuare mica l’aveva ancora deciso. Le si affacciò alla mente sua mamma, non aveva ancora avuto il coraggio di dirglielo. Non aveva alcun timore di sentirsi criticata, o di vedersi piovere addosso colpe che non erano sue. Il rapporto con sua madre era stranamente buono, soprattutto rispetto agli anni passati. Era lei che non voleva togliersi il breve momento del crogiolarsi nel proprio dolore, nell’avere qualcosa tutto per sé anche se fa male, anche se dilania, anche se squarcia quel che resta di un cuore rotto.
Quando si è tristi è normale che il ricordo vada a quando si era bambini, e a quando si veniva coccolati da mani calde e dolci, quando c’erano le nenie per scacciare gli incubi e dormire sereni, quando si smontavano le rotelle della bici e c’era sempre una mano sul sellino. Si ricordò improvvisamente che potere calmante avesse su di sé il brodo, da sempre. Stanca? In ansia? Fusa dallo studio? Brodino e via, meglio quasi del whisky. E quindi sì: ‘Cappelletti in brodo, grazie’. E quel brodo di cappone, cucchiaio dopo cucchiaio, la riscaldava, la faceva sentire come sotto una coperta di lana morbidissima. Felice? No, felice no. Ma stava continuando a mangiare, era lì, era lì da sola e le sembrava pure di sorridere, talvolta.
Aveva braccia dipinte in color noce
che le servivano per trattenere.
E nella propria paura
cercava piaceri infranti.
‘La passione degli amanti
è per la morte’, diceva lei.
Si leccò le labbra
e si trasformò in una piuma.
(da ʻThe Passion of Loversʼ, Bauhaus, 1981)
Verso casa
Uscita, non sapeva cosa fare. Tornare a casa? Ma quale casa, di chi. Doveva prendere le sue cose e andarsene? Doveva far sloggiare Matteo, magari con la scena madre di fargli trovare le borse davanti alla porta con la serratura già cambiata? ‘Dopo, dopo, non ora, via, via’. Piegò a destra, poi in via Nazario Sauro. Guardò ogni vetrina che trovò: antiquariato, libri usati, oggetti di design in vetro, cuffie e sciarpe fatte a mano. C’erano solo lei e la nebbia che la sospendeva dal mondo, e quanto avrebbe voluto sentire sospesi anche i suoi pensieri. ‘Dopo, dopo, via’. Continuò a passeggiare fendendo la nebbia, respirandola, facendo entrare l’umido e tutti i suoi profumi nelle narici. Sentiva
il legno bruciato in qualche stufa vicina, l’acre della polvere perché era un sacco che non pioveva, e tutti quegli odori che fanno inverno ma che nessuno sa descrivere. Quasi non si accorse del fascio di luce che all’incrocio con Borgo Tommasini vide sul lato sinistro. Si girò stupita, con la bocca aperta, guardando verso l’alto. Da bambina. I lampadari di ogni foggia appesi di solito lungo il Borgo per Natale avevano lasciato spazio a una lunga serie di specchi con i contorni illuminati. Specchi irregolari per forma e angolazione, che avevano l’effetto di colpire il buio con dolcezza riflettendo la luce creata da sé stessi. ‘Bellissimo’, disse candidamente con la testa rivolta verso l’alto.
Cercò di vedersi riflessa, ma non riuscì finché trovò un trapezio particolarmente inclinato che le restituì il suo cappotto nero, le scarpe di pelle rosso scuro e la cuffia dello stesso colore. Vedeva anche gli occhi. O meglio, si diceva che li vedeva. ‘Sono bella’, si disse. ‘Andrà avanti, va sempre tutto avanti no?’, si chiese come se lei o una persona a caso potesse darle una risposta. Premette play e si mise nelle orecchie l’Allegro con fuoco della Nona di Dvořák, e pensò fortissimo dentro di sé ‘Ce la farò’ , quella ragazza che era da sola al ristorante guardando fiera quelli felici e chi non aveva la vita che era un’impalcatura crollata. Proseguì verso Strada Farini, dove gli irriducibili avevano ancora un calice in mano nonostante un freddo quasi paralizzante. Un passo dopo l’altro a respirare e tagliare la nebbia col suo procedere a tratti incerto, a tratti sicuro. La punta del naso gelida. Il mento sparito sotto la sciarpa. Guardò la chiesa della Steccata. Respirò profondamente chiudendo gli occhi. ‘Grande così, tronfia così’, si disse andando verso casa senza più chiedersi cosa sarebbe successo da lì a due minuti.