Social e comunicazione. I ‘meme’ e le pillole d’ironia

Si presenta come una vignetta ironica, ma si è rivelato uno strumento capace di attirare l’attenzione e di creare un’identità unitaria fra chi lo utilizza. Ecco la loro forza

Di Federica Cameroni

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione

Si chiama ‘meme’, fa largo uso di sottintesi, gioca sull’unione di differenti campi semantici, la rielaborazione e lo stravolgimento di concetti già affermati nell’immaginario comune del pubblico per cui è stato pensato. Usa un linguaggio fatto di citazioni che spaziano dal trash televisivo a Dante; facendo sì che per poterne ridere sia necessario uno sforzo di comprensione. Attraverso i ‘meme’ immagini e parole acquisiscono un significato iconografico, che non è per forza immediatamente comprensibile a tutti.

Il meme è un contenuto dinamico che viene riprodotto in forme sempre differenti e acquisisce forza con la condivisione. L’autore, poco interessato al riconoscimento personale, è solitamente difficilmente individuabile. Oltre a essere battute “per pochi” e gratificare chi rientra nel gruppo che ha capito, permettono di affermare il proprio punto di vista dato che chiunque li può modificare e riutilizzare.
Prendete la pagina Instagram Il Ticinese Medio, che condivide messaggi pensati per un pubblico che conosce usi e costumi ticinesi. Per esempio, il meme “Passeggiata scolastica starter pack” (vedi qui sotto) con rappresentati i prodotti alimentari (il pacchetto delle famose chips, la michetta al prosciutto…), non ci farebbe ridere se non li avessimo avuti anche noi nel nostro zainetto durante le passeggiate scolastiche. Il pubblico de Il Ticinese Medio non si limita a consumare i contenuti della pagina, ma viene incoraggiato a rielaborarli, diventando parte attiva della comunità.

Anche il personaggio-pseudonimo attivo su Facebook noto come Francesco Sottobosco si rivolge a un pubblico ticinese, aggiornato sull’attualità e che condivide grossomodo la sua stessa visione politica (si veda la recente intervista su laRegione, 6 ottobre 2021, ndr). Quando pubblica il meme “House of Foca”, sorta di suo tormentone, cita House of Cards (serie Tv che parla di intrighi politici), ma utilizza anche una simbologia ricorrente (come lo stemma del Canton Ticino al contrario). Unendo questi elementi sintetizza la sua opinione su più temi, per esempio sul panorama politico ticinese o il mondo dell’informazione; in una forma che, riadattata, anche soltanto cambiando l’immagine a cui apporre i simboli, si presta a commentare eventi differenti. Senza la comprensione degli elementi singoli – conoscere la serie Tv, le opinioni e la simbologia usata da Sottobosco –, il meme non farà ridere o risulterà insensato.

In modo simile la frase ‘Ok Boomer’, che già da sola rappresenta un meme, viene usata da millennials e Generazione Z come sfottò, per indicare una mentalità chiusa e secondo loro tipica delle generazioni precedenti (e non per forza è riferita ai baby boomers). È stata usata in tutte le maniere e accompagnata a qualsiasi tipo di immagine; ma ‘Ok Boomer’, prima ancora di essere manifesto generazionale virtuale, sta a significare la condivisione di medesimi ideali (sui diritti di genere, sui diritti delle minoranze eccetera). Allo stesso tempo chiunque può usare ‘Ok Boomer’ riferito a cause diverse; affermandosi come individuo, ma all’interno di una comunità.

La storia del meme

Il termine fu coniato dal biologo Richard Dawkins (dal greco mimema, ciò che viene imitato) che, nel suo libro Il gene egoista (1976) lo definì “un’unità di trasmissione culturale”, un corrispettivo culturale del gene, il cui intento è replicarsi. Un concetto, un’idea, trasmesso dagli umani ad altri esseri umani. Per Dawkins rientravano nei meme in egual misura il concetto di matrimonio, le competenze culinarie, ma anche melodie, frasi, mode… Negli anni il concetto fu approfondito da vari studiosi che arrivarono a considerare il meme un’entità complessa che si presenta combinata ad altri meme per sopravvivere (complessi memici). Non tutti aggiungono informazioni a chi li riceve, alcuni mirano soltanto a replicarsi come un virus culturale. Il meme da analogico passò a digitale, pur mantenendo le stesse caratteristiche di mutevolezza e replicabilità. Le opinioni riguardo a quando venne creato il primo meme di internet sono discordanti; ma nella loro diffusione fu fondamentale la piattaforma anonima di condivisione d’immagini 4chan. Anche se negli anni la piattaforma è diventata nota per aver dato vita a gruppi di cospirazionisti, neonazisti o per aver ospitato gruppi pedopornografici, 4chan inizialmente era uno spazio dove chiunque aveva l’opportunità di esprimersi. Come spiega Alessandro Lolli nel saggio La guerra dei meme: fenomenologia di uno scherzo infinito (2017; riedito nel 2020), nella comunità 4chan e non solo il sentimento di appartenere a una sottocultura – quella di internet – era così forte da spingere gli utenti a definirsi autist (autistici) e contrapporsi alla cultura di massa, quella dei normie (i normali proposta dai media tradizionalisti, colpevoli di spettacolarizzare eccessivamente i propri contenuti.

Quando si diffusero i primi internet-meme fra il grande pubblico, gli autist si rivelarono tutt’altro che contenti. Nacque una sorta di guerra culturale che portò a una grande confusione. Un esempio emblematico è il meme di Pepe The Frog, molto popolare su 4chan attorno al 2008, oggi preso come simbolo da diversi gruppi dichiaratamente di estrema destra, tanto da spingere l’Anti Defamation League a inserirlo fra i simboli d’odio. Quando la ranocchia umanoide cominciò a essere utilizzata al di fuori della nicchia, la comunità ‘autistica’ decise di renderla sgradevole agli occhi del grande pubblico, dunque inutilizzabile dai normie. Nacquero le prime rappresentazioni di Pepe The Frog associate al nazismo che suscitarono la curiosità dei mass media che faticavano a capirne le origini. La confusione risultò gratificante per gli autist, e, per alcuni, continuò a esserlo anche quando, attorno al 2016, gruppi con ideologie effettivamente neonaziste si appropriano del simbolo.

La variante politica

Il meme, essendo una sorta di slogan visuale che fa leva sul concetto di post-verità, si applica a molteplici contesti e può essere utilizzato con diverse finalità politiche: rendersi simpatici agli occhi del pubblico (è il caso di molti politici che hanno adattato il loro linguaggio a quello dei social network); modificare l’opinione pubblica; organizzare le masse o promuovere dibattiti e idee. È facilmente replicabile e stimola le persone, che sentono di sostenere attivamente le cause per cui “memano” e lo utilizzano in prima persona. Un esempio è dato dalle seguaci del pop coreano (K-pop), e il sabotaggio al comizio di Donald Trump nel 2020 in Oklahoma, quando acquistarono tutti i biglietti rimasti a disposizione per poi non presentarsi. L’organizzazione avvenne soprattutto tramite i social network e fu centrale l’uso di meme e neologismi con cui creare hashtag da mandare in tendenza, pur comunicando in forma semi-segreta.
Si è dimostrato cruciale anche all’interno di strategie di destabilizzazione. È ciò che è accaduto con l’Internet Research Agency, la fabbrica di troll russa che interferì nella campagna elettorale USA del 2016. Come riporta il New York Times: “I collaboratori dell’agenzia, sostenuti dal Cremlino, diffondevano messaggi incendiari sui social media per alimentare discordia su razza, religione e altre questioni che miravano a influenzare gli elettori”. Il funzionamento delle fabbriche di troll è stato spiegato dal giornalista David Patrikarakos nel libro War in 140 Characters: How Social Media Is Reshaping Conflict in the Twenty-First Century (2017) dove descrive un sistema diviso in sezioni operanti in differenti campi del digitale: creazione di siti di informazione fedeli alla narrativa filogovernativa; invenzione di meme per ampliare il raggio di diffusione dei contenuti; fino alla sezione dedicata a troll e shitposting, concepita per rafforzare gli articoli della prima sezione e screditare quelli degli altri media.
Non essendo sempre immediatamente comprensibile, il meme può essere uno strumento di dissidenza. Si adatta a pianificare e coordinare azioni o semplicemente a promuovere idee senza temere ripercussioni. È stato il caso del movimento ‘Occupy Wall Street’ o delle primavere arabe; ma anche l’assalto al Campidoglio negli Stati Uniti è un esempio del potere organizzativo del meme, questa volta messo in atto da gruppi di cospirazionisti. In Cina è stato inventato uno slang combinato all’uso di meme, tramite cui aggirare la censura e comunicare più liberamente, tanto da costringere il governo a inserire nella lista di parole censurate diversi neologismi. Il meme dunque è sia arma digitale che manifesto ideologico, si presta a svariati usi i cui effetti non si limitano alla risata. In futuro sarà necessario capire come arginare il fenomeno senza cadere nell’errore di creare leggi liberticide per controllare il web. Con grande probabilità, non sarà una sfida facile.

ODIO: LA SOLITA VARIANTE

I meme possono essere anche, purtroppo, uno strumento perfetto per promuovere idee d’odio. Dal momento che nella loro condivisione è insita la perdita di contesto della creazione, evitano di dover rispondere personalmente del messaggio promosso. È poi difficile stabilire se dietro un meme vi fosse l’intento di fare dell’umorismo nero o quello di promuovere contenuti d’intolleranza. Come afferma Emily Dreyfuss per Wired, insorge anche un altro problema: “Un meme ben posizionato sui social media può condurre a disinformazione, radicalizzazione ed estremismo”. La forma criptica diventa problematica, poiché non capire spinge a due possibili reazioni: passare oltre o cercare informazioni. Cercando acronimi o termini coniati da movimenti cospirazionisti, come il ‘WWG1WGA’ utilizzato da QAnon, si incappa in contenuti che spaziano dal cercare di vendere materiale al parlare di nuovo ordine mondiale. Più si consumano contenuti a tema, più gli algoritmi ne suggeriscono altri: “Questo può trasformarti in un estremista senza che te ne accorga”, sostiene Emily Dreyfuss.

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