Sulle tracce del quadro di Michelangelo (forse)

Le vicende di Antonio “Gin” Schira e la storia di una tela che passò dal Ticino

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Alla fine non ho capito bene chi sia stato Antonio ‘Gin’ Schira. Forse un imbroglione o un povero diavolo. O l’una e l’altra cosa assieme. Forse una mascherava l’altra. Fa lo stesso: non è diventato nessuno e non credo ci tenesse. In un certo senso, poi, è stato imbrogliato anche lui.

Non sapevo quando fosse nato il Gin, pensavo tra il 1910 e il ’20, finché un suo bisnipote mi ha inviato una fotografia della sua lastra tombale. Era dell’Undici.
Aveva finito i suoi giorni facendo il lavapiatti negli alberghi di Ascona. Prima era stato segretario comunale a Loco, in Valle Onsernone, e sacrestano di Auressio, poco distante. Aveva studiato da prete in un istituto a Fara Novarese, ma c’è chi dice che quella del seminario era solo una storia di sua invenzione. Uno va via, torna dopo qualche anno e racconta: ho fatto questo e quello. 

Poveri cristi
Qualche problema con la polizia per denunce di pederastia, e un mezzo capolavoro di ambiguità: la tela «michelangiolesca» che venne messa in vendita da una casa d’aste bernese nel mese di maggio del 1991. Prezzo base, tre milioni e mezzo di franchi. Poco per un Michelangelo autentico, troppo per un falso. E vai a sapere se era l’uno o l’altro.
Il titolare della casa si chiamava Bendicht Gnaegi. Uno svizzero di quasi cinquant’anni, corpulento e baffuto, che si è fatto fotografare dai giornali vicino al quadro, un Cristo deposto che indica la ferita nel costato, quasi a ricordare a noi uomini il prezzo del riscatto, che spesso ce lo dimentichiamo. Il quadro, un olio su tela, si chiama Il vero riscatto (appunto), e il Gin Schira l’aveva tenuto nascosto per almeno trent’anni. Un quadro di chiesa, come si dice, analogo a molti altri che si trovano in valle, giuntivi grazie all’emigrazione. Nei secoli gli uomini sono partiti e tornati, qualcuno straccione, qualcuno un po’ signore, qualcuno col gusto dell’arte, e altri che si erano presi il virus della rivoluzione, che poi i confessionali volavano fuori dalle chiese. I quadri, qualcuno si salvava. Il vero riscatto, per Bendicht Gnaegi era un autentico Michelangelo. Per i critici un imbroglio. 
Ammesso che lo fosse, era stato ordito bene fin troppo, per essere stato concepito dal Gin, mi aveva detto il Roberto Carazzetti, professore di scuola media, che si era già occupato di questa storia. 

Di chi è?
Pioveva a dirotto il giorno che sono andato da lui a sentire la sua versione. Che cominciava pressappoco così: «Inizialmente il Gin raccontava di aver ricevuto il quadro in regalo nel 1927, dall’Emilia Lucchini di Loco.Non ci credo. Prima di tutto l’Emilia Lucchini era una donnetta che ha quasi sempre abitato sola sui monti della Garina ed era ben difficile che potesse avere in cascina una tela di un valore simile. «È ben vero che la storia della valle è ricca di opere di valore portate dagli emigranti in Fiandra e in Francia. Ma non è il caso dell’Emilia, né del Gin. Anche perché i vecchi ricordano bene che il Gin aveva cominciato a parlare del quadro solo dopo il ’34, dopo gli anni passati, diceva lui, in un seminario della bassa Novarese».
Carazzetti non me lo ha voluto dire, ma era come se dicesse che il Gin il quadro se l’era preso su al ritorno in valle. E che forse non sapeva nemmeno lui cosa aveva per le mani. Non sapeva, ma fiutava, quello lì.
Aveva venduto la tela, attorno al 1965, a un collezionista di Neuchâtel, Henry Dubuis. Non so se davvero Dubuis abbia creduto di avere per le mani un Michelangelo. Aveva fatto un affare comunque: la mano sconosciuta che aveva dipinto quel Cristo conosceva l’arte della luce. Ma Il vero riscatto non era rimasto tanto tempo neppure nelle sue mani. I Dubuis lo avevano affidato a un dipendente delle Poste svizzere, Silvio Carmine.
Questo signore, quando l’ho poi cercato, era molto scettico sulla necessità di riparlarmi di quella storia. Al telefono lasciava andare poche parole. «I Dubuis si fidavano di me. Venivano ogni tanto in Ticino a vedere il quadro». Del Gin, ricordava di averlo visto solo una volta nella cucina di un albergo del Monte Verità.
Me lo vedo; non con la sua faccia che non ho mai conosciuto, ma con quella di uno di Cannobio, vissuto anche lui tra imbrogli, sale da ballo e notti randagie. Era scampato alla fame e rideva con una bocca sdentata quando raccontava dei polli che si mangiava nelle cucine degli alberghi di Ascona, dove faceva lo stagionale lavando i piatti. Svernando, diceva lui, «prima che arrivavano i iugoslavi a portarmi via il lavoro d’estate». Poi, con la guerra nei Balcani, qualche posto si era liberato, e lui mangiava.

Vero o non vero
Finendo di dire quello che aveva da dire sul Gin, il Silvio Carmine ha solo aggiunto: «Non sono riuscito assolutamente a capire chi era quella persona che mi trovavo davanti e che aveva avuto in casa un tesoro come quel quadro. Sembrava un idiota, ma forse recitava». Nient’altro, se non che i Dubuis avevano richiesto a un professore di Brera una perizia sulla tela. Non la volevano in casa, e andavano solo ogni tanto a vederla, ma almeno sapere chi l’aveva dipinta. Non si sa mai.
Mauro Pellicioli – il professore di Brera si chiamava così – l’aveva perciò esaminata e aveva steso un rapporto il 28 giugno 1966. «È stato fatto certamente nella prima metà del XVI secolo ed è veramente originale dell’epoca. Secondo me può essere attribuito a Michelangelo Buonarroti». 
Che quel «secondo me» bastasse a imparentarla con la Sistina era un’idea un po’ fragile, ma il gallerista Gnaegi, nipote di un passato ministro della Difesa svizzero, l’ha puntellata aggiungendo alla documentazione dell’asta un esame più recente, la perizia Magugliani, del 1979. Secondo questo signore «la mano di Michelangelo si vede chiaramente». Oltretutto «esiste un antico documento che conferma Michelangelo».
Il bello delle storie è che sono stanze senza porte: si entra e si esce, si ripassa dalla stessa e magari no, era uno specchio che ci ha ingannati. E adesso dove siamo? Un documento, se vogliamo chiamarlo così, in effetti c’era, quello che il Gin aveva trascritto e poi tradotto su un foglio intestato «Comune di Loco, Confederazione Svizzera-Cantone Ticino». Il Carazzetti me ne ha dato una fotocopia, sorridendo del latino molto latinorum in cui era stato scritto, e della sua traduzione. 
Vero o no, si trattava dello stesso documento che Gnaegi esibiva nell’originale; nella fotografia dell’originale, a dire la verità. 

Cinque secoli di storia
Sia come sia: il 28 dicembre 1566 un L.S. Giov. Aud. Rogerio Cursor avrebbe autenticato il Vero riscatto. Le date, poi, che il Gin era riuscito a tirare insieme per ricostruire (o costruire e basta) la storia del quadro, sono un’infinità. E per ogni data, quasi, un nome di re. Ridevamo in redazione – la stolida risata di chi scrivendo di altri, crede di averne in mano la vita – leggendone l’elenco; ma era una storia migliore di molte altre, con il Gin sospeso tra la sua idiozia (vera o presunta) e una recita di cui non era del tutto padrone. Ci piaceva cercarne la fine, ne sarebbe uscito un bel pezzo.
La storia comincia nel 1522, con Antonio Borbone, re di Navarra, che incarica Michelangelo di dipingere il quadro. Quarant’anni dopo, morto l’Antonio, la tela finisce a suo fratello, il futuro Carlo X.
Ma anche i re sono carne mortale, e nel 1594, papa Clemente VIII si riprende il quadro e lo fa trasportare in Vaticano; passano dodici anni, e nel 1606, il suo successore Paolo V lo restituisce alla casa reale napoletana. Per via che anche il vicario di Pietro, nel suo transito terreno, è della stessa carne dei re. Certe volte parenti stretti.
Il poveraccio di tutta la storia non era solo il Gin. Anche quel quadro, Michelangelo o no, aveva ormai una vita propria, ma non scelta da sé. Errabonda, come le case che cambiano di proprietà, ma loro restano al proprio posto. Quel Cristo dolente seguiva capricci e creanze altrui; e mani diverse lo toccavano, occhi distanti lo degnavano. Nel 1730, Carlo VI, re di Napoli, regala il Vero riscatto ai Medici di Firenze e questi lo vendono a un privato.
Il quadro era poi riapparso a Lucca, nel 1740, ancora come omaggio: questa volta a Carlo Emanuele III di Savoia, che l’aveva a sua volta dato in dono al convento di San Dalmazzo a Torino. 
Da allora la tela ha avuto almeno due vite: nel 1780 il convento era stato saccheggiato e chissà come il quadro era arrivato in Ticino, proprietà di una certa famiglia «L.», ignara del suo valore e delle ricerche che i Savoia avevano iniziato per riaverlo.
«L.» starebbe per Lucchini, quell’Emilia Lucchini da cui il Gin diceva di avere ricevuto in dono il quadro.

Le verità del signor ’aGs‘
Non so se il Gin sarebbe stato capace di inventare una storia simile. Secondo il Carazzetti sì. Lo provava, diceva, l’articolo uscito nel 1948 su un settimanale ticinese, Il Paese, firmato aGs, che secondo lui era opera del Gin. «Te lo dico io che è del Gin».
Gli avevo chiesto dieci minuti, ma la cosa andava avanti già da un po’ e lui non smetteva di tirare fuori nuovi fogli. L’articolo sul Paese riapriva la favola del quadro, perché citava a lungo un testo scritto da un Francesco Visconti, professore di Belle Arti a Milano, che sapeva dell’esistenza del quadro, convinto anche lui che fosse di Michelangelo. 
Lo sapevano in tre – scriveva questo Visconti – e non tre qualsiasi: lui, Mussolini e Ciano, che, ancora nelle grazie del Duce, aveva incaricato diversi antiquari italiani di riprenderne le ricerche. «Il sottoscritto – sono ancora parole di Visconti –, non avendo ottemperato agli ordini del Fascio, perdeva la cattedra d’insegnamento in questo frattempo».
Visconti raccontava anche di aver potuto sbarcare il lunario solo grazie alla sua competenza di antiquario, ma la sua posizione era diventata più difficile: era il 1944 e il regime di Salò occupava ancora il Nord Italia. Poi poteva anche scrivere che «c’era la guerra contro i turchi», che non mi avrebbe fatto lo stesso effetto, perché nel suo romanzo, ormai c’ero dentro anch’io. 
«Nel 1944, verso fine febbraio, mi trovavo in Val Cannobina con tanti altri che come me cercavano di mettere in salvo la pelle nella vicina Svizzera. Da alcuni contrabbandieri mi ebbi uno straccio di giornale svizzero-ticinese, il Popolo e Libertà ove, con gioia e meraviglia che non posso esprimere, lessi della scoperta fatta da antiquari dilettanti, di una tela che essi attribuivano a Michelangelo Buonarroti. Nascevo a nuova vita…».
E questa non era una invenzione romanzesca: ho poi trovato una copia di Popolo e Libertà del 3 febbraio 1944. A pagina due, in trentadue righe veniva data notizia del ritrovamento di un quadro firmato Michelangelo, che era nelle mani di S.A. «invidiabile sagrestano, scopritore di documenti e estimatore sagace di cose artistiche». Il Gin.

Volato in cielo
In tutto quel piovere e nei lampi di parole del Carazzetti, pensavo alle montagne della Cannobina, al silenzio del loro cielo. Agli anni di una pre-formazione che la vita mi aveva assegnato per interposte esistenze. Partigiani, contrabbandieri, frontiera. E su queste cose mi si velano gli occhi e la voce si rompe. Bella ciao. Per fortuna, poi, mi riprendo.
Erano molti gli uomini che nel 1944 si disputavano la vita sulle rocce di quel ricordo. Visconti raccontava ancora di essere passato in Svizzera l’otto marzo, attraverso il Gridone, facendosi accompagnare dai contrabbandieri fino ad Auressio, dal Gin. Voleva il quadro a tutti i costi, per risolvere la propria vita, diceva, e per l’Italia, che riteneva derubata dell’opera. «Il nove marzo telegrafai a Berna alla nostra Legazione, perché provvedesse a ritirare il quadro, ma non ebbi l’esito sperato. Forse ero sconosciuto o meglio non si volle riconoscere per la contrarietà di idee col Regime». 
Mi riprendevo, ma la storia mi era scappata di mano; l’emozione mi aveva nascosto la sua fine. Il quadro ha poi ripassato il confine sulle creste della Val Vigezzo, mi ha chiesto, o confermato un Carazzetti rimasto senza una mia risposta. Mi stavo perdendo nelle immagini di quelle montagne, insieme alle ultime parole del Visconti, secondo cui il Vero riscatto era stato portato a Santa Maria Maggiore nel dicembre 1945, «per opera di un mio amico sacerdote e patriota valoroso». 
Ma il Carazzetti diceva ancora che anche quella era una invenzione del Gin: l’articolo dello sconosciuto aGs concludeva infatti dicendo che la tela era poi stata fatta sparire «con un aereo della Swiss Air»; un’immagine quasi dovuta per un ex seminarista (vero o presunto) e sacrestano (accertato): come Cristo, anche il suo ritratto non poteva che ascendere al cielo. In aereo, dato che i tempi cambiano. Ingannato il Visconti, allora, ingannato aGs (ma intanto avevo capito che aGs poteva essere Antonio-Gin-Schira)? No; per il Carazzetti era il Gin che mescolava ancora una volta le carte e così alzava il prezzo del quadro. Può darsi: il Visconti era ormai morto quando l’articolo era apparso sul Paese. Ma se è vero che il Gin nel 1944 aveva rifiutato venticinquemila franchi, perché accettarne ventimila venti anni dopo? Per come si era ridotto, ha tagliato corto il Carazzetti. «E adesso c’è magari chi ci crede».

Epilogo
Allora facevo il giornalista e da quel parlare mi era venuto fuori un articolo interessante; centoventotto righe su «Il giallo di Michelangelo – Come finì in Onsernone un capolavoro». Era il giovedì dell’Ascensione, guarda il caso. Scendevo lento le curve dell’Onsernone e pensavo a una valle piena di pioggia che scrosciava, con la gente chiusa in casa, e il suono delle nubi che si sfrangiavano su creste invisibili e Van Morrison le accompagnava con un canto d’Irlanda dal mangianastri e tutto intorno il calare scintillante di una luce stanca. L’esaurirsi di una storia, più che la sua fine.
Il Gin è morto nel 1978. Il quadro è rimasto invenduto e chissà che fine ha fatto.

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