Diritto e rovescio

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Di laRegione

Non vorrei essere nei panni dei giudici e funzionari che devono decidere del caso di Bewar Omar, il parrucchiere curdo iracheno, ma soprattutto bellinzonese, di cui parlammo mesi fa. Ora il Tribunale amministrativo federale ha respinto il ricorso contro l’esecuzione del suo “rimpatrio” (fra mille virgolette, ché se per dieci anni ti sei rifatto una vita arricciando i boccoli delle signore ticinesi, ormai la tua patria è qui).
Non invidio quei funzionari, perché affrontano il solco a volte profondo fra diritto e vita; quello che separa la ‘dura lex, sed lex’ dal ‘summum ius, summa iniuria’: la legge necessariamente uguale-per-tutti dal rischio di commettere, applicandola, un torto più grande di quelli che s’intende sventare.
A quanto pare, Bewar ha mentito: ha dichiarato prima di essere di Mosul, poi invece di Dohuk. Un errore che ha azzoppato la sua domanda d’asilo. Però parliamo di uno che si è fatto giorni interi sepolto nel doppiofondo di un camion, che ha rischiato di annegare prima di arrivare qui. Umano allora cedere alla tentazione di usare una parolina magica – Mosul, simbolo della guerra e del terrore – pur di uscire dai guai.
Resta l’integrazione da manuale, resta un Kurdistan che per Berna non è pericoloso (chissà), ma comunque non è più casa sua. Ora rimangono la strada del permesso B e quella dell’effettivo rimpatrio. Anche se molti poi tentano la via della clandestinità, magari in qualche altro paese dove ricominciare di nuovo da zero. Speriamo che si decida non tanto con pietà, parola pelosa, ma anzitutto con buonsenso.

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