Elogio della gratitudine

Desiderate iniziare con il piede giusto questo nuovo decennio ed essere felici? Provate con grandi dosi di gratitudine: costo zero e risultati scientificamente provati.

Di Palma Grano

Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Proprio come nella canzone degli Jarabe de Palo De según como se mire, todo depende (ovvero “a seconda dell’angolo dal quale guardi, tutto dipende”), la parola “gratitudine” non è neutra. Ogni cultura ha il suo modo di esprimere la gratitudine. Prima di vedere come la gratitudine sia espressa in diversi modi, e qualche consiglio per praticarla, serviamoci un po’ del caro vecchio vocabolario. Nei dizionari editi da Hoepli e Zanichelli la gratitudine è circoscritta alla riconoscenza verso la persona da cui si è ricevuto un bene. Sorgono dunque un paio di domande: si è grati solo se si riceve un bene? E se un animale ci salvasse la vita, non possiamo esprimere gratitudine nei suoi confronti? In questo senso la definizione della Treccani è forse la più completa, definendo la gratitudine come “sentimento e disposizione dell’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare”. Sebbene le case editrici paiano d’accordo sull’equiparare la gratitudine alla riconoscenza, il “come” farlo è tutta un’altra storia.

Lingue del mondo

Osservando l’etimologia, è curioso sapere che, sebbene esistesse l’aggettivo gratus, secondo l’Accademia della Crusca, la parola “gratitudine” non esisteva in latino. Infatti la si riconduce alla forma in negativo del latino tardo, ossia l’ingratitudine. Ebbene sì, la negazione è stata coniata prima della sua forma positiva. Ripercorrendo la storia, già Tommaso D’Aquino nel Tredicesimo secolo era consapevole del fatto che differenti lingue esprimessero la stessa realtà in modi diversi per il semplice fatto che la realtà è tanto complessa e supera di molto le capacità intellettuali dell’uomo. Parrebbe che nessuna lingua umana sia in grado di esaurirne il significato totale. Tommaso D’Aquino spiegava inoltre l’esistenza di diversi livelli di gratitudine. Il primo consiste nel riconoscere il beneficio ricevuto, il secondo nel ringraziare a parole e il terzo corrisponde al ricompensare a tempo debito secondo le proprie capacità. Se curiosiamo invece tra le lingue, vediamo come in inglese e in tedesco esista un nesso non casuale tra il ringraziare e il pensare, rispettivamente “thank” e “think” in inglese, “danken” e “denken” in tedesco. In portoghese la parola magica “obrigada/o” esprime il vincolo dell’obbligo: ob-ligatus, il dovere quindi di restituire il favore. “Arigatou” in giapponese racchiude due significati: aru, esistere, e gatai, difficile. Il giapponese mette l’accento sulla rarità di ricevere un favore gratuito, sul fatto che non sia da tutti. Ne aggiunge, inoltre, la difficoltà di retribuirlo in modo adeguato. Insomma, semplificando molto nell’ “arigatou” giapponese troviamo l’impossibilità di ringraziare abbastanza, e la riconoscenza che deriva dalla consapevolezza della difficoltà racchiusa nel gesto di dare. 

Culture, pesi e misure

Queste espressioni linguistiche si esprimono in pratiche culturali differenti. Per esempio, se negli Stati Uniti, come alle nostre latitudini, dire grazie è già simbolo di gratitudine, i giapponesi invece ripagano un regalo o un aiuto con un dono o un favore di simile valore o maggiore. Nell’Artico, il popolo Inuit ritiene che, quando si riceve in omaggio della carne dopo una partita di caccia, essendo questo gesto fondamentale per la sua esistenza, non sia necessario alcun gesto di gratitudine in cambio. Nel romanzo La figlia della neve di M.J. McGrath, l’autore scrive che “gli Inuit hanno diritto di pretendere aiuto gli uni dagli altri, la gratitudine non c’entrava niente”. I Tamil invece esprimono facilmente la loro gratitudine non verbalmente, ma al contrario strappare loro un “grazie” è veramente difficile. Se qualcuno non ci ringrazia o non ci fa un regalo per ricambiare, chissà che non l’abbia fatto in un altro modo differente. 
Questo rapporto tra gratitudine e cultura è stato studiato in profondità dal professore americano Jonathan Tudge, massimo esperto sulle diverse espressioni culturali della gratitudine, ma non è il solo. Sebbene siano pochi gli studi sull’arte del dire grazie, i ricercatori iraniani Abbas Eslami-Rasekh e Vajiheh Ahar hanno comparato un gruppo di studenti americani con uno d’iraniani. Sono arrivati alla stessa conclusione di Tudge: per gli americani è più semplice dire “thank you”, mentre per gli iraniani è importante scegliere il modo a seconda dello status sociale della persona e dell’entità del favore. Mila Titova, in un altro studio, scoprì che gli indiani hanno un senso di tristezza dovuto al fatto che si sentono in debito pensando di non aver dimostrato abbastanza la loro gratitudine. Questo non accade tra gli angloamericani. 

Quanto basta?

Tutti questi studi riconoscono l’educazione familiare e scolastica come un altro fattore di rilievo. Quello che però ci accomuna tutti, da Bellinzona a Timbuctu, è l’esercizio della gratitudine: un vero toccasana. La ricerca più conosciuta è quella del professor Henry Emmons dell’Università della California. Emmons e il suo collega Michael McCullough riuscirono a dimostrare che chi esercita la gratitudine ha meno problemi di salute e riesce a rendere un’ora e mezza in più sul posto di lavoro. In un altro studio effettuato da un gruppo di ricercatori cinesi, si è riuscito invece a comprovare un certo legame tra gli effetti della gratitudine e la qualità del sonno, il livello d’ansia e di depressione. Insomma, più si è grati e meno ci si deprime, si è meno ansiosi e si dorme meglio. Semplice, vero? Ahinoi, non è proprio così. In una cultura in cui si valorizza molto il raggiungere il “più” (più soldi, più amici, più like nei social media, più cose materiali), diventa facile sentire sempre la mancanza di qualcosa. Siamo bombardati da messaggi che ci ricordano che non abbiamo abbastanza e, ancor peggio, che non siamo abbastanza. Questo ci fa credere che se solo avessimo lo stipendio giusto, il corpo e il partner giusto – insieme all’auto giusta e alla casa giusta –, allora saremmo soddisfatti. Purtroppo non funziona così: questo è il cammino più veloce verso l’insoddisfazione. Diverse ricerche dimostrano che quando crediamo che acquisire certe cose- come soldi, status, o fama – ci farà più felici, si cade nella trappola del “non è mai abbastanza”, e si rimane infelici. In sociologia questo processo si chiama il paradosso di Easterlin: più si ha, più si vuole, e più si vuole, più si è infelici. E per uscire da questo labirinto c’è solo una soluzione. Indovinate? La gratitudine.

La buona educazione

Bene, se avete seguito fin qui le interessanti declinazioni di questo termine, e siete curiosi di vedere se nella vostra vita quotidiana avete applicato qualcuna di queste regole d’oro, seguitemi perché Claudia Bergomi, psicologa ticinese ed esperta in meditazione, ci dà qualche consiglio pratico. In primis, consiglia di prendere un momento per apprezzare quella strana tribù formata da persone con dinamiche più o meno semplici: la famiglia. Suggerisce di concedersi un momento per riflettere sugli elementi positivi che ci uniscono. Invita a non procrastinare gesti di gentilezza dandoli per non necessari sotto la scusa “tanto siamo famiglia”.
Lo stesso discorso vale per i membri della nostra comunità. Dimostrare gratitudine a chi svolge dei ruoli che contribuiscono al benessere della società crea un circolo virtuoso a prova di cinismo. Per banale che possa sembrare il ragionamento, Bergomi, riferendosi al Gruppo delle Nazioni Unite per la Meditazione, afferma: “Spesso, grazie alla scusa ‘è pagata/o per farlo’ non si ritiene opportuno esprimere gratitudine”. La psicologa ticinese considera di estrema importanza quella che definisce “la nostra seconda famiglia”: internet e le reti sociali.  Afferma: “È importantissimo apprezzare il lato positivo di essere connessi. Questa volta non si tratta di andare a caccia di like”.
Inoltre, Bergomi continua con una proposta: “Utilizziamo il web come strumento per farci evolvere come specie umana. Evitare quindi commenti cinici e condividere l’essere positivi”. E poi? Beh, veniamo a noi stessi! Bisogna essere grati per la nostra perfetta vita imperfetta. Secondo il Gruppo delle Nazioni Unite per la meditazione è proprio nel vedere il bicchiere pieno nella vita imperfetta che giace questa potente medicina: la gratitudine. Nel suo libro Dipende tutto dal vaso, Kristi Nelson dimostra come la gratitudine non sia vedere il bicchiere mezzo pieno, ma semplicemente vedere e apprezzare il bicchiere stesso, con i suoi alti e i suoi bassi. Insomma prescriviamo la gratitudine, ma se in pastiglie o in spray: la scelta va al paziente. Intanto, grazie.

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