Evviva l’impunità di gregge
L’emergenza coronavirus ha confermato quanto oggi (ahinoi) dibattiti e confronti, pacati e costruttivi, siano la vera vittima delle nostre società. E così alla fine chi grida forte e vuole avere sempre ragione non sbaglia mai.
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Una volta si discuteva del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ora c’è chi si beve tutto senza nemmeno chiedersi cosa ci sia dentro e chi il bicchiere te lo spaccherebbe in testa a prescindere. Ci si accapiglia, ci si accalora e ci si arrocca ognuno sulla propria posizione, circondato dai suoi pretoriani, se li ha. Se non li ha, un gruppo su Facebook che ti dà ragione, per quanto piccolo, si trova sempre. Funzionano così le cosiddette bolle social, funzionano così le curve di certi stadi, funzionava così quando Maria Antonietta rispondeva al popolo affamato: “Se non hanno più pane, che mangino brioche”. Ignorare l’altro e i suoi bisogni, le sue idee, irriderlo. Non solo non capirlo, ma nemmeno fare quel minimo di fatica per provarci è diventato il segno dei nostri tempi. Una volta si diceva banalizzare il dibattito, ora il dibattito nemmeno c’è, ci si manda a quel paese già ai blocchi di partenza. Trasmissioni tv, radio e giornali, che dovrebbero fare della sintesi la loro forza, sono spesso costruiti al contrario: prendo un guerrafondaio e un pacifista, un astronauta e un terrapiattista, Tom e Jerry, butto l’osso nel mezzo e “venghino, siori, venghino”, simulando un combattimento tra galli. Cosa vuoi che succeda?
Il giudice sono io!
Una volta, agli albori di internet, il comico Corrado Guzzanti prendeva in giro le prime webcam e le prime chat dicendo: “Posso collegarmi con un aborigeno? Ok. Ma io e te aborigeno che se dovemo dì?”. Ora lo sappiamo: dovete mandarvi affanculo. Potreste fare anche dell’altro, trovare punti di contatto, iniziare a capirvi, ma ormai non interessa a nessuno. Si è tanto discusso di immunità di gregge in questo periodo, con italiani, francesi e spagnoli, pesantemente colpiti dal coronavirus, che quasi esultavano quando in Svezia, che si ostinava a non chiudere tutto, moriva qualcuno. Voi tenete aperto? Crepate.
Il giorno in cui Boris Johnson, che aveva sottovalutato il Covid-19, venne portato in terapia intensiva, in un talk show italiano il filosofo Massimo Cacciari venne informato in diretta: se ne uscì con una sgradevole battuta sull’immunità di gregge – che il governo britannico aveva valutato come possibilità per arginare il virus –, il tutto tra i risolini compiaciuti della presentatrice. Schernire chi non la pensa come noi, canzonarlo perfino davanti a una notizia tragica che poteva condurre Johnson alla morte. Come lo chiamiamo questo atteggiamento? Chiamiamolo pure col suo nome: impunità di gregge, quella che ci permette di muoverci nella nostra cosiddetta zona di comfort, sapendo che qualsiasi nefandezza non solo ci sarà perdonata, ma anzi, sarà portata in trionfo. Essere irrispettosi di tutto e tutti in nome della propria idea, della propria crociata, intanto nel tuo gregge sei protetto, sei assolto, o meglio – anzi peggio – non sei nemmeno processato. Il giudice punta sempre il dito altrove, anche perché il giudice sei tu. Poi la realtà sarà anche un’altra, fatta di compromessi, ma ormai nella realtà ci passiamo talmente poco tempo che tanto vale non stare a preoccuparsene.
Il piatto altrui
E così ce ne stiamo tutti asserragliati nella nostra contrada, con lo sguardo torvo a criticare gli altri insieme a quelli che la pensano come noi. I runner che avevano stabilito che in pieno lockdown dovessero essere gli unici a poter stare in strada e gli odiatori da balcone con l’olio bollente pronto da lanciare, come nel Medioevo, a chi si trovava sul marciapiede: poi se non era un runner, ma un postino o un medico, passasse dall’altro lato del marciapiede la prossima volta. Lo stesso vale in cucina: prima spuntarono quelli che non mangiavano carne per motivi etici. E li guardavano storto. Poi arrivarono i vegetariani duri e puri, quelli che non mangiano nemmeno il pesce. Infine i vegani, i macrobiotici, i fruttariani… E non è che ognuno sta a guardare il suo piatto. Tutti a prendersela con tutti: il carnivoro è dipinto come Attila re degli Unni, quello che mangia pesce come il Capitano Achab, quello che rinuncia agli animali nel piatto come un monaco buddhista che rinuncia ai piaceri della vita, il vegano come un fricchettone pronto per lo strizzacervelli. Un modello applicabile, e applicato, dappertutto: politica, moda, arte, sport, riunioni di condominio. Non la pensi come me? Sei un cretino, un delinquente, un deviato.
Le due curve
Lo scorso mese in Italia c’è stato il caso di Silvia Romano, la ragazza tornata dopo un anno e mezzo in Somalia in mano a un gruppo di terroristi. Scesa dall’aereo che l’ha riportata a casa con un vestito islamico è stata insultata da migliaia di persone, invitata a tornarsene in Africa “se ci stava così bene”. L’altra curva a urlare “arrivava da lì, lì indossano solo quello” , come se lo Stato italiano non avesse almeno una felpa, un maglione da dare alla ragazza, come se l’armadio di casa sua fosse rimasto vuoto in sua assenza. Provare a tacere e gioire del suo ritorno, figurati. Provare a dire che innanzitutto non insultarla (che è ben più grave), ma anche non difenderla a prescindere, era impossibile. Come se per vedere una partita di calcio togliessero le tribune e uno fosse costretto a scegliere una delle due curve. Cosa resta in mezzo? Un solco. Una distanza.
Magari ci divide solo una pozzanghera, che basta fare un saltino per passare di là, o sporcarsi i piedi per darsi la mano. E invece no: così facendo la pozzanghera si allarga e diventa un fiume sempre più ampio e agitato, sempre più pericoloso da guadare. Noi di qua, voi di là, e costruire un ponte per attraversare, figurati, troppo complicato. Meglio farsi il gesto dell’ombrello da una riva all’altra. I più coraggiosi, spesso, fanno la fine della rana della favola di Esopo, quella che si fida e consente allo scorpione di salirle sulla schiena per passare dall’altra parte. Con il piccolo particolare che noi siamo sia la rana che lo scorpione che la punge: ci autoaffoghiamo piuttosto che cedere di un millimetro nelle nostre certezze. E certo ci sono eccezioni, come il nazifascismo, il razzismo o il terrapiattismo, la pizza con l’ananas, che non vanno bene e basta. Ma sono eccezioni, appunto. Il resto sarebbe da mettersi lì e discuterne. Perché non è possibile che tutto sia diventato bianco o nero.
Immolarsi (per cosa?)
Nel suo ultimo spettacolo su Netflix, il comico americano Jerry Seinfeld spiega quanto sia in realtà ridotta la distanza apparentemente siderale tra i termini inglesi “great” e “suck” , cioè tra ciò che riteniamo fantastico e ciò che riteniamo orrendo, e di quanto abbiamo tutti (o quasi tutti) perso la capacità di dare un giudizio che non sia 10 o 0. Non è un caso che gli esperti, se hai dubbi su un acquisto su Amazon, ti dicano di vedere le poche recensioni da 3 stelle, non quelle da 5 e non quelle da uno. Seinfeld in sintesi dice, dopo un lungo discorso – che è, come tutte le cose più belle, serissimo e divertente – che l’hot dog allo stadio, freddo, di bassa qualità, nel pane scaldato male da un tizio non proprio raccomandabile è allo stesso tempo sublime e schifoso. Possibile che i nostri giudizi o quelli altrui debbano essere sempre e solo cibo stellato oppure spazzatura e mai quell’hot dog?
Questa cieca fiducia nella nostre certezze fa venire in mente una vecchia e risaputa storia, un gregge che tutti abbiamo sentito nominare almeno una volta nella vita, quello dei lemming, piccoli animali noti perché si suicidano, anzi, si suiciderebbero in massa, dalle scogliere. Ecco, questi gruppi di persone dalla fede cieca si comportano come lemming, marciando sicuri e compatti verso il baratro. Fregandosene delle notizie vere o false, di esagerazioni, demonizzazioni, manipolazioni. Tra l’altro, ironia della sorte, anche la storia dei lemming che tutti prendiamo per vera, vera non è. Era stata presa per tale dopo un video della Disney del 1958 che spiegava le loro morti in modo sbagliato. Non si suicidavano affatto, ma quando c’era carenza di cibo andavano fino sui bordi scivolosi delle scogliere per cercarlo. E cadevano. Almeno loro rischiano di sfracellarsi per sopravvivere, noi per un like su Facebook.