Il sasso di Maurito. Un racconto di Giorgio Genetelli

Era un’estate secca e ventosa, la squadra scalcinata come non se ne vedevano dai tempi del colera, dicevano i vecchi…

Di Giorgio Genetelli

Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Era arrivato il signor Macheda con delle maglie rosse stinte, ma ci aveva detto che per pantaloncini e scarpe dovevamo arrangiarci. Partimmo così, a piedi, verso Gosa, attraversando prati dove il fieno non lo tagliavano più e sembrava una distesa di paglia ritta in piedi a far niente. Maurito stringeva sotto il braccio il pallone, che non aveva un centimetro di pelle, raschiata via dalla ruvidezza del ghiaione di strade e piazze: sembrava una vescica pelosa.
Da Gosa era giunta una missiva nella quale ci sfidavano con parole esagerate, ma era tutto esagerato allora, anche il nulla in cui passavano i giorni caduti da un calendario falsificato a mano e recante un anno ipotetico, 2031, senza che nessuno ne fosse certo. Non si giocavano più campionati da anni, che sembravano mezzo secolo. Erano rimaste le sfide tra di noi, senza regole, se non quelle di non poter prendere il pallone con le mani e colpire la testa di un giocatore a terra. In porta ci andavano sempre due vecchi che non correvano più ma erano capaci di piazzarsi, con lentezza. Due porte senza rete, distanti una cinquantina di passi. Il signor Macheda diceva che ai tempi erano alte attorno ai due metri, mentre ora erano sprofondate e perfino io sfioravo la traversa con la punta dei capelli.
Mia madre aveva preparato un po’ di pane e sciroppo per tutti, che il signor Macheda aveva chiuso nella sua borsa raggrinzita come se stesse mettendo via qualcosa di suo, dicendo che l’avrebbe aperta alla fine della partita e solo se avessimo vinto. Non ci piacque l’idea, la fame era sempre più forte della voglia di giocare.

Camminavamo tra le sterpaglie, fantasmi diurni di un rosso slavato come certe albe caliginose. Non eravamo più di otto, tra cui il Gordo e il Flaco, due gemelli di sette anni che non si assomigliavano per niente e che di solito venivano scelti per ultimi al momento di fare le squadre. Non riconoscevo il paesaggio, forse non ero mai passato in quella campagna riarsa e sabbiosa, tagliata da una strada vuota con l’asfalto screpolato. Avevo fame, ma bisognava che me la tenessi, contando di calmarla dopo la vittoria a cui anelavamo come non mai e il cui pensiero mi irrigidiva le ginocchia.
Il sole batteva già forte e nella noia del vento tra la polvere arrivammo al campo di Gosa, dove quelli dell’altra squadra si passavano un pallone lucido, arrivato da chissà dove, ma come se non sapessero bene cosa farne. Avevano magliette di un celeste indefinito, che spiccava nell’aridità. – Maurito sta davanti, vicino alla porta degli altri, passatela a lui – ci disse il signor Macheda con la borsa dei panini artigliata nella mano sinistra e il fischietto nella destra. Maurito era grande, più di tutti, con un’ombra di baffi che ci parevano temibili. Io mi piazzai davanti alla nostra porta, confidando che i sandali potessero tenere duro e che i gemelli ingombrassero.

In quell’istante che precedette l’inizio, con il signor Macheda tutto serio e col fischietto già in bocca, si sentivano solo i grilli e mi domandai di cosa si nutrissero. Il campo era misurato a memoria, le porte ancora più basse delle nostre, le righe solchi nella polvere e nessuno a guardare. O forse a Gosa erano morti tutti, anche se qualcuno la lettera doveva pur averla scritta. Loro, comunque, erano in nove e non accettarono di toglierne due per pareggiare i conti. – Avete l’arbitro – disse il loro signor Macheda, che forse si chiamava in un altro modo, ma non importava. Dopo dieci minuti disperati davanti alla nostra porta a resistere con gomiti e ginocchia, quelli del Gosa avevano pensato di poter abbandonare tutte le prudenze. Davanti a Maurito si aprivano spazi enormi, inutili e pieni solo della sua solitudine, ma quando rilanciai con precisione involontaria lo vidi correre tutto solo e scagliare il pallone tra i pali. Mentre lo abbracciavo, il loro portiere spostava canneti per recuperare la palla dal torrente in secca.

Ostacolammo a lungo in un tempo incomprensibile, tra urla e gomitate, fino a quando il signor Macheda, chissà perché, forse per tenersi il pane e lo sciroppo tutto per sé, fischiò un fallo a pochi metri dalla nostra porta. Mentre il loro giocatore più alto aspettava che il signor Macheda gli desse il segnale di tirare e noi eravamo affranti, scorsi Maurito che si chinava furtivo, a pochi passi dal pallone. Il signor Macheda fischiò, il giocatore cominciò a correre e colpì il pallone, che però finì sbilenco verso un cespuglio di ginestre. Di colpo la partita finì, avevamo vinto e forse la borsa del signor Macheda si sarebbe aperta. – Ho tirato un sasso al pallone – mi disse Maurito con lo sciroppo che gli colava dal mento, mentre io, con i sandali distrutti, mi pungevo i piedi nella paglia secca e gloriosa del ritorno.

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