United Roads of America. La battaglia sull’aborto

Qui gli animi si sono accesi 50 anni fa e oggi tutti attendono di capire come si pronuncerà la Corte Suprema. In gioco c’è la vita o la morte, e i diritti civili

Di Emiliano Bos

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

Non è una metafora. Nemmeno un’esagerazione. È uno scontro vero. Inizia tutti i venerdì alle ore 4:55 del mattino. Volontari pro-life contro volontari pro-choice, cioè gli anti-aborto e i pro-aborto. I primi gridano insulti, gli altri offrono abbracci protettivi dai secondi. Gli uni urlano giaculatorie nei megafoni, gli altri reagiscono con musica a tutto volume. I pro-vita brandiscono videocamere, i pro-scelta impugnano ombrelli usati come scudi per la privacy. In mezzo, c’è il cancello (aperto) d’ingresso di una piccola clinica dove è possibile abortire. Il teatro di questa campale battaglia ideologica è un marciapiede alla periferia di Montgomery, in Alabama. Tutti gli Stati del Sud cristiano e ultra-conservatore hanno lanciato una crociata contro la libertà di interrompere la gravidanza, garantita qui in America dalla storica sentenza della Corte Suprema del 1973, “Roe contro Wade”.  
C’era ancora buio pesto e un freddo pungente quando arrivai su questo marciapiede. Un caffè bollente e annacquato mi accolse nell’ottobre 2019 nella piccola villetta della ‘Yellowhammer’. Questa associazione che difende il diritto all’aborto ha acquistato la casa e il giardino confinante con la clinica. Per “proteggere le donne che vengono qui per abortire”, mi spiegò la responsabile Mia Raven. Pettorine arcobaleno, enormi ombrelli colorati e via, i volontari escono in “trincea”, davanti a quel cancello. “Cerchiamo di garantire sicurezza a chi arriva qui alla clinica”. Una Toyota Corolla è la prima a parcheggiare, quando ancora non albeggia. I volontari scattano compatti a coprire con i loro ombrelli la targa dell’auto e i passeggeri a bordo, una donna e il suo compagno. Li scortano poi fino all’ingresso della clinica, pochi passi.  


© E. Bos
I volontari che scortano le pazienti verso la clinica dove viene praticato lʼaborto.

Il cancello ideologico 

Dall’altra parte della barricata ideologica, all’esterno della cancellata del piccolo edificio sanitario, due agguerriti anti-abortisti gridano accuse di “omicidio” a chiunque stia per varcare quella porta. Che per loro conduce all’inferno. David Day, cappellino di lana, giubbotto mimetico e megafono, è in piedi sopra uno sgabello di plastica sul marciapiede. I pro-aborto lo accusano di fotografare, riprendere e diffamare le persone che arrivano in clinica, rendendo pubblici nomi delle pazienti e targhe delle auto. Una “gogna” via social media che il diretto interessato non smentisce: “È un mio diritto, non c’è nulla di sbagliato: mostriamo al mondo l’Olocausto che avviene in questo edificio dove vengono macellati dei bambini”. Esponente di una chiesa battista, dice di essere stato “mandato da Dio a salvare bambini innocenti”. Afferma di averne “salvati” oltre 200 dal 2015, da quando ha iniziato la sua “missione”. Numeri impossibili da verificare. David riparte con la sua litania gridata nel megafono, tra appelli e insulti. I volontari alzano il volume della musica per non far sentire alle pazienti il messaggio. “Questa è l’America – aggiunge David in una pausa del suo rosario di esortazioni e improperi –, abbiamo il diritto di predicare il Vangelo. Ma queste mamme non hanno il diritto di uccidere”.  


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Lʼantiabortista David Day, megafono alla mano, alla clinica di Montgomery.

Ecografie e preghiere  

Dall’altra parte della strada l’approccio è meno combattivo. Alle prime luci del giorno arrivano una trentina di persone. Pregano nel parco pubblico antistante alla clinica. Protestanti, cattolici e cristiani di diverse denominazioni: “Siamo uniti a favore della vita” , spiega la signora Robin Blessing, il cui cognome – nomen omen – significa “benedizione”. “Noi non condanniamo né giudichiamo. E non gridiamo. Vogliamo solo dire che ci sono aiuti disponibili per chi è in difficoltà”. Di solito vengono qui davanti alla clinica con un piccolo bus attrezzato per mostrare le immagini di ecografie di feti: “Sono bambini vivi”. Oggi è rimasto in officina. Si levano preghiere e canti in modo ordinato, in netto contrasto col frastuono del megafono di David. La signora Blessing dice di comprendere il sentimento di chi vuole rinunciare alla gravidanza. “Però ci sono chiese e organizzazioni pronte ad aiutare”. L’aborto, a suo parere, è una “soluzione permanente a un problema provvisorio”.  


© E. Bos
La pastora Zanthia Turner, impegnata in una crociata anti-aborto.

La pastora Zanthia 

Risalendo verso Birmingham incontrai la pastora Zanthia Turner, della chiesa battista ‘Pane della vita’. Per la nostra conversazione, collocò due troni dorati davanti all’altare del piccolo edificio usato per le liturgie. Paladina anti-aborto, a metà conversazione rivelò la sua storia personale. A 14 anni – nell’Alabama segregata e razzista – sua madre obbligò lei, ragazzina afro-americana, a interrompere la gravidanza: “Lavorava come infermiera, mi disse che non potevo tenerlo”. Il dolore fisico, il trauma psicologico, il padre che bruciò il feto. Ora parla di questo ai giovani nelle scuole. E anche ai fedeli dal pulpito della sua chiesa, una delle migliaia che punteggiano questo Sud intriso di una fede profondamente conservatrice. “Condivido la mia esperienza personale per far capire che è una scelta sbagliata”, sussurra la pastora. Che a 16 anni rimase incinta di nuovo. Scappò in Mississippi, riuscì poi a sposare il papà del bambino. “Oggi mio figlio ha quasi 40 anni”. Ma lei pensa spesso a quel bambino mai nato. “Sono domande senza risposta, che ho custodito dentro di me per anni: avrebbe assomigliato al padre? O a me?”. In uno scontro etico in corso da decenni – anzi, ormai quasi da mezzo secolo – la sua voce appare pacata. Ma la battaglia qui in Alabama ha raggiunto anche livelli estremi. Come mi raccontò un avvocato.  


© E. Bos
Jim Reed nella sua libreria di Birmingham (Alabama)dedicata ai diritti civili.

Condannata per l’omicidio in grembo  

L’ingresso dello studio legale di Mark White si trova accanto alla più famosa libreria di Birmingham, gestita da Jim Reed, che con garbo mi mostrò il garbuglio degli scaffali stracolmi di volumi. Vi trovai un’edizione storica delle Lettere dal carcere (di Birmingham) di Martin Luther King. Altra lotta per i diritti civili, mezzo secolo fa. Pure questi sono diritti civili. O dovrebbero esserlo. Nel caso di Marzia Jones sono stati calpestati, in uno scontro che raggiunge esiti imprevedibili. Questa donna venne incriminata di omicidio perché una sua collega le aveva sparato, uccidendo il figlio che portava in grembo. Un magistrato inizialmente accusò la sparatrice. Una giuria popolare ribaltò incredibilmente la prospettiva: Marzia Jones non aveva evitato il litigio, venendo meno al dovere di proteggere quel figlio non ancora nato. E dunque colpevole. Un giudice distrettuale poi la prosciolse. Nessuna accusa, invece, a carico della collega che sparò contro di lei. “Questo caso va al di là di ogni limite, non esiste alcun precedente”, mi spiegò l’avvocato Mark White, difensore di Marzia. A suo parere, l’indagine era stata condotta in modo non professionale e con forti pregiudizi da parte della polizia in Alabama. A conferma – mi disse davanti al faldone dei documenti di questo caso – “di una questione più ampia: una storia consolidata di abusi contro le donne in gravidanza”. Marzia Jones non voleva comunque abortire. Aveva già scelto un nome per quel figlio che non sarebbe mai nato. L’aborto, concluse l’avvocato con una provocazione, “fu condotto dalla donna che ha sparato”. 

La Corte Suprema, di nuovo 

Pochi giorni fa la Corte Suprema ha fatto sapere di volersi esprimere sul caso del Mississippi, che vuole vietare l’aborto dopo la 15esima settimana di gestazione. Era questo l’obiettivo delle decine di casi – dall’Alabama al Texas – portati in questi anni davanti al più alto tribunale d’America: una nuova sentenza per ribaltare “Roe contro Wade”. Quasi 50 anni dopo, oggi la Corte Suprema è a netta maggioranza conservatrice, 6 giudici su 9. L’ennesima battaglia. I Repubblicani sperano di vincerla. Ma stavolta non sono megafoni contro ombrelli. 

 

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