United Roads of America. I contadini che resistono

Siamo nel Far West. Lontani da un governo-padrone che “si è spinto troppo oltre: ci ruba l’acqua destinata all’irrigazione”. Perché qui o vivi o muori

Di Emiliano Bos

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

Prima della cappa c’era già il cappio. Al collo degli agricoltori di questa spianata fertile srotolata tra il Sud dell’Oregon e il Nord della California. La cupola che si è seduta sopra la fetta Ovest d’America – come un condizionatore rotto che sputa aria calda invece di quella gelida tanto cara agli americani – ha soltanto ingigantito un problema di siccità in corso da tempo. Se lo ricorda bene il signor Ty Kliever. Quasi mi stritola il mignolo con la sua possente presa. Più che una stretta di mano, è il benvenuto in una terra dove fatica e resilienza sono l’orizzonte ineluttabile. Ma stavolta qui nel bacino del Klamath è in corso un braccio di ferro per le risorse che lui vorrebbe evitare. Una battaglia per la sopravvivenza. L’acqua è preziosa per tutti. Agli agricoltori serve per irrigare. Ai nativi per mantenere i pesci di lago e di fiume. Ma in questo momento non è abbastanza. Come spiega Ty, presidente di uno dei distretti idrici. Mi mostra come manovrare il quad, la moto a quattroruote usata per spostarsi nei campi. Le sue mucche, una cinquantina, sono tutte nella stalla. Una quarantena forzata. “Non c’è foraggio” , dice Ty accarezzando i pochi ciuffi rinsecchiti. Non se la prende con nessuno questo allevatore di terza generazione. Anzi, un paio d’anni fa si è rimboccato le maniche in vista di possibili turbolenze di prezzi nella vendita di vacche e manzi. Così ha assecondato la sua passione per la distillazione del luppolo, creando un piccolo birrificio artigianale. Si chiama ‘Skyline’, un orizzonte che sembra indicare la direzione della perseveranza, un tirare avanti a fatica. Sembra strano, qui c’è birra ma non c’è acqua.  


© E. Bos
La diga sul fiume che esce dal bacino artificiale del lago Klamath.

La diga contesa 

Il governo federale ha deciso che il bacino artificiale di Klamath servirà solo per alimentare un fiume e garantire la sopravvivenza di pesci considerati in pericolo, indispensabili alle tribù di nativi locali. Limitando però l’acqua destinata all’irrigazione, altrettanto indispensabile per gli agricoltori. Dei 3 milioni e 700mila metri cubi destinati a loro, non hanno ricevuto “nemmeno una goccia”, dice Ty. “Una pessima gestione, non è la prima siccità. Potremmo affrontarla diversamente”. Eppure il Klamath Project, questo sistema di dighe e canali, era stato pensato dalle autorità federali a inizio Novecento proprio per fronteggiare le carenze idriche. “Garantisce acqua a 200mila ettari di terreno e a due riserve naturali”, spiega davanti a una mappa Paul Simmons, direttore del Consorzio dei consumatori di questa acqua, un signore esperto e garbato che non nasconde le sue preoccupazioni. Qui si vive di agricoltura, c’è il rischio concreto di mandare in malora intere produzioni: patate, aglio, rafano, cipolle. A prendersela sono proprio quelli che campano di questi raccolti. Li incontro davanti al canale artificiale che deriva dall’invaso, accanto al fiume. Il governo di Washington – lontano 4’500 chilometri, l’ha chiuso. La loro rabbia è tracimata. 


© E. Bos
Grant Knoll e Dan Nielson, due tra i promotori della protesta dei contadini, davanti al fiume che fuoriesce dal lago Klamath.

Il governo federale e l’Ovest 

Siamo nel Far West. Lontani dalla capitale, da un governo-padrone che “si è spinto troppo oltre: ci ruba l’acqua destinata all’irrigazione. Abbiamo i diritti di sfruttamento”, sbotta Grant Knoll, uno dei promotori della protesta. “È di nostra proprietà”. Un altro agricoltore, Dan Nielson, dice di volersela riprendere. “Sono pronto a combattere”. Non scherza. Qui sono quasi tutti conservatori. Ma non è solo una questione di partiti. Condividono quella profonda diffidenza verso l’autorità centrale, lontana geograficamente e culturalmente. Tra loro, probabilmente sia Grant che Dan, ci sono persone comunque persone vicine al movimento di estrema destra dei ‘People’s right’. È arrivato qui a dare il suo sostegno di persona e a coordinare – secondo alcune fonti – eventuali azioni di forza o provocazioni come la possibile apertura della chiusa del canale anche lo pseudo cowboy Ammon Bundy. È un agitatore di destra che occupò illegalmente una riserva naturale in Oregon nel 2016 opponendo resistenza alle autorità federali, e che più di recente ha guidato drappelli di movimentisti anti-mascherina durante la pandemia in Idaho. “Vedi? L’acqua c’è”, mi apostrofa Grant mentre camminiamo lungo il corso d’acqua naturale, gonfio di flutti che scendono a valle verso la California. A prima vista, difficile dargli torto. Ma occorre ascoltare anche chi ha un’altra concezione di questa stessa acqua. Willa Powless fa parte del consiglio tribale che riunisce tre diverse comunità di nativi originari della zona circostante l’Upper Klamath Lake. 


© E. Bos
Paul Simmons, direttore esecutivo del Consorzio dei consumatori d’acqua del Klamath Project, creato a inizio Novecento.

L’acqua dei nativi  

Quando pensa all’acqua Willa corre per un attimo con la mente ai riflessi cobalto dell’Arcipelago della Maddalena. Un anno di servizio nella marina USA, nella base militare incastrata tra le insenature più sorprendenti della Sardegna. Al tavolo di un fast-food col pollo fritto e freddo, scherza ripensando al porceddu bagnato dal Cannonau. Poi si fa seria. E dal vino torna a parlare di acqua. “Deve essere destinata al fiume, per garantire la sopravvivenza dei pesci”. Questa dirigente tribale denuncia anche le tensioni razziali presenti nella comunità di Klamath. Dice di comprendere la fatica degli agricoltori. Però – riflette – “è troppo facile dipingerli sempre e solo come persone che lavorano sodo per mantenere la famiglia. Non sono gli unici”. Nessuno, a suo parere, “umanizza mai noi nativi: non siamo soltanto quelli che vogliono prendersi tutta l’acqua”. Che per queste tribù, chiosa Willa, è qualcosa in più di una semplice risorsa per coltivare. “È il nostro contatto con la Natura, la Terra e gli Elementi”. Per adesso qui non ci sono né vincitori né vinti: “Tutti stanno perdendo”, mi aveva detto in mezzo ai suoi terreni il signor Ty. Proprio come accadeva qualche tempo fa in Ohio.  


© E. Bos
La soia è stata al centro di una pesantissima battaglia commerciale per i dazi con la Cina. Spesso i produttori ne hanno pagato il prezzo a causa della diminuzione del suo valore.

La soia ‘resistente’ 

Un’altra ‘battaglia’. Non per l’acqua, abbondante nel Midwest. Ma una guerra dei dazi con la Cina. Altri tempi. Altro inquilino della Casa Bianca. Stessa resiliente determinazione degli agricoltori. Come Tim, un tipo smilzo di 65 anni, cappellino da baseball calato a coprire l’occipite. Lo incontrai nella sua azienda agricola a metà strada tra Dayton e Columbus, appena lasciata la striscia orizzontale della statale Interstate 70. Il fratello George, secco e con mani callose, col badile roteava i semi di soia dentro in un silos di lamiera, spingendoli verso una specie di enorme aspirapolvere dotato di potente risucchio. Quel cilindro metallico in mezzo alla pianura verdeggiante era – ed è tuttora – lo scrigno di famiglia: le minuscole pepite color giallo pallido vengono sparate su un camion. Un carico da 25 tonnellate, venduto poi a una cooperativa locale. Correva il 2017. Il livello di acqua per irrigare era buono. Però si prosciugavano i ricavi. Perdite del 20% per i produttori americani a causa dello scontro sulle tariffe doganali, i coltivatori americani stavano perdendo denaro. Parecchio. Quasi duemila dollari per quel carico sul camion di Tim. Che come il fratello aveva votato per Trump, convinto di “difendere i nostri interessi”. In quel caso, il governo federale era amico. Anche per l’erogazione generosa e miliardaria di sussidi ai contadini. Aiuti che Tim – poco loquace ma limpido nei suoi ragionamenti – mi disse caparbiamente di non voler accettare. Anzi, mi assicurò di essere disposto a pagare di tasca propria perdendo i guadagni sulla soia, “se questo servirà alle generazioni future”. E via, avanti a lavorare. Non c’è tempo per lamentarsi. Bisogna consegnare il carico di semi. Separati da parecchie longitudini, ma in fondo vicini, attaccati, con passione alla loro terra: c’è qualche somiglianza nell’ostinata determinatezza del signor Ty dell’Oregon e del signor Tim dell’Ohio.


© E. Bos
Ty Kliever a bordo del quad all’interno della sua proprietà, dove gli effetti della siccità sono evidenti.


© E. Bos
Mandrie al pascolo arrivando nel Sud dell’Oregon dal Nevada.

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