Il mondo in una gabbia
Cos’è davvero il carcere e cosa rimane dopo aver visto per mesi o anni il mondo attraverso una cornice di ferro?
Di Cristina Pinho
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Nelson ha ancora nitidamente impresso nella mente l’odore acre della prigione, un misto di disinfettante e sigarette, con il giallognolo della nicotina a impregnare ogni cosa. A ricondurlo regolarmente al ricordo di quell’ambiente è un suono per molti banale, insignificante: il tintinnio di un mazzo di chiavi che sbattono tra loro. Può succedere ovunque, e subito quel suono gli scopre i nervi. Per molto tempo non ha potuto possederne di chiavi, ad aprirgli e a chiudergli le porte erano altri, secondo regole stabilite da chi in luoghi simili probabilmente non ha mai messo piede. «Capitava anche nel silenzio totale della notte di sentire le guardie con le chiavi che camminavano nei corridoi. È un rumore che proprio non sopporto».
Nelson è stato incarcerato la prima volta quando aveva 14 anni «per un grave delitto». In quel momento il Ticino non era fornito di una struttura penitenziaria adatta ad accogliere minorenni e quindi è stato mandato in Svizzera interna. Così, appena ragazzino, in un’età in cui si pensa al presente molto più che al futuro, si è trovato confrontato con una condanna che lo avrebbe costretto a trascorrere il resto della sua giovinezza in carcere: 7 anni da scontare per intero, il massimo della pena. «Una volta uscito sono rimasto a contatto con quel genere di ambiente, il che mi ha portato a varcare la soglia della galera altre volte». ‘Non ne vado fiero’ ripeterà più volte nel corso del nostro incontro: una frase non solo di circostanza.
’Ché la retta via era smarrita‘
Farera, Stampa, Stampino: li ha visti tutti Nelson. Elenca i nomi delle strutture detentive ticinesi come fossero i gironi dell’Inferno, partendo dal basso. «La Farera è il carcere preventivo, per 23 ore su 24 si sta chiusi in cella; c’è un’ora di passeggio ma i contatti con altre persone sono minimi. Il periodo più lungo che ho fatto lì è stato di 2 settimane: un calvario. A parte alcuni rari casi, non si ha diritto alla TV, si può disporre di un unico libro, si mangia solo quello che viene servito».
Alla Stampa invece le celle vengono aperte alla mattina e dopo i pasti, «si può circolare nel settore, andare in biblioteca, a passeggio nel cortile, partecipare ai laboratori, fare la spesa nella cantina, cucinare. Ma anche lì le chiavi per accedere al mondo dei liberi le ha qualcun altro. Quella finestra – indica dietro di me, ndr – ho il potere di aprirla, di affacciarmi, di dire ai miei colleghi che sto scendendo, di urlare. In prigione no». Lì se urli la tua voce torna indietro, e il cielo ha tutti i giorni la stessa forma, con una cornice di ferro e cemento.
In galera diventi un numero, mi dice, un articolo di legge, una pratica. Appartieni allo Stato, sei in sua balia. «Ho visto uomini colti e istruiti, che fuori ricoprivano cariche importanti, ridotti a uno straccio perché magari l’assistente sociale aveva preso una decisione con leggerezza, senza interpellarli». L’immagine restituita è di corpi spersonalizzati, spogliati della facoltà di decidere, posteggiati in una sala d’attesa interminabile ad aspettare sempre qualcuno, qualcosa: un colloquio, una risposta, l’ora dei pasti. E a contare. «Sì, li ho contati i giorni, li ho contati per bene, avevo il block notes dove facevo le classiche stanghettine; gli ultimi erano quelli peggiori, il tempo non passava mai».
La monotonia è logorante, ma il suo opposto è forse peggio: l’imprevedibilità di una tensione che esplode. «Ne ho viste partire di risse, devi stare sempre sul chi vive, non sei mai tranquillo al 100%. La cosa che a me ha sempre colpito sono i futili motivi per cui iniziano. Ho assistito alla scena di un ragazzo che ha preso la testa di un altro e gli ha fracassato i denti contro una ringhiera solo perché gli aveva mangiato un panino. Il problema è che lì dentro sei privato di così tanto che ogni singola cosa che possiedi è come se fosse il tuo tesoro. Anche solo se ti offro una sigaretta non è mai in modo disinteressato». In quella prospettiva deformata dalle sbarre, gli oggetti e i gesti cambiano di valore, e tutto può diventare merce di scambio o di conflitto.
Tra le mura di Babele
La descrizione dei carcerati pare una carrellata in una galleria di stereotipi: «Quelli dell’Europa dell’Est sono dentro prevalentemente per furto, i nordafricani per spaccio, gli italiani per associazione a delinquere, chi viene da altri cantoni per casi grossi di truffe». I reati violenti non sono tantissimi: «Il problema è che alcuni sono dentro magari per droga ma poi fanno gruppo, si esaltano, e si beccano durante la carcerazione altre accuse tipo violenza o fomentazione di rivolta. Ho visto gente trasformarsi radicalmente, ragazzi che fuori avevano paura della propria ombra e dentro facevano gli spacconi. Io stesso ero diverso… Ma fa parte del carcere, è pieno di piccole regole non scritte da imparare in fretta. Mai essere troppo disponibili o mostrarsi intimoriti, mai vantarsi di essere qualcuno fuori o fare i gradassi con quelli sbagliati, stare zitti, girare la testa altrove, seguire la legge dell’omertà».
È necessario costruire una versione di sé stessi con la corazza per non farsi schiacciare. «Io oltre alla mole ho la fortuna che, avendo studiato come cuoco e pasticciere, le volte in cui mi sono trovato in detenzione sono andato subito a lavorare in cucina. Lo sanno tutti: mai toccare il cuoco, è lui che decide del tuo cibo. È conveniente anche stare con gli anziani, e conoscere diverse lingue: io comunicavo con gli africani in francese, con quelli dalla Svizzera interna in tedesco. Così costruisci dei ponti, e ti crei una posizione. Devi giocare di strategia, calcolare ogni tua mossa. Lì non ci sono vie di fuga».
Oltre a un perenne e diffuso stato di ansia e frustrazione, mi spiega Nelson, in galera si respira un gran senso di tristezza e di malinconia: «Per quanto cerchi di non mostrarti vulnerabile, di lacrime ne versi molte. Anche quelli che fanno i fighi per tutta la settimana, quando per l’ora delle visite cominciano ad arrivare mogli e figli, cambiano completamente. Diventano premurosi, li vedi giocare con il ciuccio dei bambini. Allo scadere del tempo è dura… In fondo tutti i detenuti sono figli di qualcuno e spesso anche padri».
Per seguire virtù e conoscenza
Allo Stampino la situazione è ben diversa, «lì hai una chiave per la tua stanza, hai diritto al telefonino e al computer, c’è la possibilità dei congedi. L’ambiente è molto più calmo, ci sono meno problemi di ordine pubblico, perché piuttosto che perdere quello statuto di solito tutti preferiscono abbassare la testa. Anche gli agenti di custodia sono ridotti. Io personalmente delle guardie non mi posso lamentare; diciamo che se ti comporti con rispetto non dovrebbero esserci problemi di sorta. Poi il fatto che sono ticinese, come la maggior parte di loro, mi ha aiutato: ci sono più cose in comune, anche se i ruoli rimangono ben distinti. Parlare con loro per alcuni è visto come una cosa normale, per altri invece se lo fai vieni considerato uno spione, un venduto».
Allo Stampino c’è anche la possibilità di uscire a lavorare con la squadra esterna… «Io l’ho fatto. Andavamo col furgoncino a sistemare dei prati e a fare pulizie e mangiavamo fuori. Sapevamo che saremmo rientrati in prigione, però quella giornata era come una folata di aria fresca. Sei più connesso con il mondo, esci per un po’ da quella condizione sospesa, non ti senti più completamente tagliato fuori». Anche se per poco, torni a essere una persona col diritto di camminare per strada.
«Dovrebbero introdurre il lavoro esterno anche alla Stampa. Lì dentro hai troppo tempo per ingegnarti e imparare quello che non dovresti fare. Io per esempio ho imparato ad aprire le porte… Ormai gli argomenti di conversazione sono miseri: si parla di donne, di casi legali e ci si scambia consigli e trucchi» che spesso portano a specializzarsi in territori che vanno dai margini della legalità alla vera e propria delinquenza. «È un circolo vizioso: affini la mentalità per cui sei stato arrestato, e spesso ci ricaschi. Conoscevo uno che si definiva bandito, quella cosa romantica alla Arsenio Lupin. Si è fatto blindare a Montreux a 60 anni mentre con la sua banda rapinava una gioielleria. Possedeva dei locali, i suoi figli lavoravano: non lo faceva per soldi. Perché, gli ho chiesto? Lui e i suoi tre fratelli avevano conosciuto il carcere in Italia fin da ragazzi, una vita a fare dentro e fuori. Praticamente quello era il suo mondo; cercava l’adrenalina del colpo ma metteva in conto anche di tornare dentro. In galera era rispettatissimo da tutti, aveva uno status, mentre fuori non era nessuno. Io non volevo finire così».
Uscire a riveder le stelle
A un certo punto, 3 anni fa, Nelson ha detto basta. «Ora mi sto ricostruendo una vita. Non è facile, i pregiudizi sono moltissimi e fanno male. C’è chi vede in me solo il delinquente, chi pensa che bisognerebbe buttar via la chiave e lasciarmi marcire dietro le sbarre». Un’ombra gli attraversa lo sguardo: «Come la madre di mia figlia, che poco tempo fa le ha detto che sono stato in prigione, dove vanno i cattivi. ‘Papà è vero?’. Non ero pronto a spiegarglielo; ora non mi vuole più vedere». «Ma c’è anche chi ti permette di ripartire da zero e mostrare il meglio di te. Da quando sono uscito lavoro in questo posto; qui ho trovato una seconda famiglia. Hanno creduto in me e l’ho fatto pure io». Adesso è vice del suo reparto e parla con orgoglio del suo percorso professionale: «Voglio andare avanti su questa strada, e stare accanto a mia figlia».
Infine, contro le mie aspettative, mi dice: «Secondo me da noi le pene sono giuste, anzi a volte un po’ troppo leggere; sono il modo di applicarle e le condizioni che andrebbero riviste. Con il carattere che avevo il carcere mi ha fatto bene. Non è così per tutti, ma con me ha funzionato. Ognuno è il solo responsabile delle proprie scelte e deve accettarne le conseguenze». Penso che per lui tutto è iniziato a soli 14 anni e la sua conclusione mi sorprende; ma la vita è anche questo, ti permette di riconsiderare di continuo le tue valutazioni.
Ci congediamo. Nelson (che in realtà non si chiama così) prende dalla tasca il suo mazzo di chiavi – la sua nemesi – tenendole ben salde in mano per non farle dondolare, apre la porta dell’ascensore e mi accompagna all’uscita. Anche lui a breve andrà fuori per raggiungere i suoi colleghi in pizzeria. Niente di scontato per uno che ha trascorso quasi 10 dei suoi 30 anni senza poterlo fare.
A volte non basta una seconda possibilità; a volte ne servono una terza, una quarta, una quinta.
LE CIFRE DEL FENOMENO
38% delle persone facenti parte del gruppo di adulti svizzeri della stessa età, ma con già una condanna alle spalle, a lungo termine sarà condannato una seconda volta.
51% dei recidivi è stato condannato per la terza volta. Gli antecedenti, la giovane età o il traffico di stupefacenti aumentano la recidiva.
20% è il tasso di recidiva in età adulta per i minorenni autori di reati che hanno subito una condanna pronunciata da un tribunale per minori. È del 34%, del 49% e del 64% rispettivamente per chi ne ha subite 2, 3, 4 o più. In generale, una condanna durante l’infanzia o l’adolescenza è correlata a un rischio di recidiva da adulti di 4,8 volte.
(fonte: Ricondanna di minorenni all’età adulta 1999-2015: fattori di rischio, DFI/UST 2018)
BILANCIO 2018 DEL SETTORE ESECUZIONE PENE E MISURE TICINO
Ecco alcuni dati estrapolati dai contributi «Carceri ticinesi ancora sovraffollate» (apparso sul quotidiano laRegione, 30/3/2019) e «Condanne di minori e adulti nel 2018» (Dipartimento federale dell’interno/Ufficio federale di statistica, 26/6/2019).
• Nel 2018 l’occupazione media delle carceri in Ticino ha superato il 91%: il tasso di occupazione ha ricalcato quello del 2017, attestandosi attorno alle 234 presenze giornaliere.
• Negli ultimi trent’anni vi è stato a livello nazionale un incremento del 50% del numero di carcerati: da 4’621 a 6’907.
• Alla Stampa quasi la metà dei reclusi, circa il 40%, sta scontando condanne per traffici di droga o per furti per procurarsi lo stupefacente.
• In termini di nazionalità, il 70% di detenuti in esecuzione della pena alla Stampa è straniero mentre alla Farera – il carcere giudiziario destinato anzitutto alle persone in preventiva o perché in attesa di giudizio o in quanto private della libertà per motivi di inchiesta – la percentuale sale al 90%.
• L’anno scorso le donne seguite in detenzione dall’Ufficio dell’assistenza riabilitativa erano 89, di cui 31 in esecuzione di una pena o di una misura. La maggioranza delle detenute sconta la pena alla Farera, cioè in una struttura riservata invece a chi è in attesa di giudizio, oppure deve essere trasferita in penitenziari di altri cantoni.
• Nel 2018 le persone in sorveglianza elettronica tramite l’apposito braccialetto erano 14; quelle che hanno svolto un lavoro di pubblica utilità 83.
• A livello svizzero la sanzione inflitta con maggiore frequenza ai minorenni continua a essere la prestazione personale (lavoro di pubblica utilità): nel 2018 è stata pronunciata nel 41% delle condanne penali di minorenni (5’685 casi). Le privazioni della libertà sono invece leggermente aumentate (+2,4%), attestandosi al 5,9%.
CARCERE: SENZA È MEGLIO?
Pare una provocazione, ma secondo gli autori di Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Chiarelettere, 2015) l’intera società ne guadagnerebbe. L’idea di fare a meno del carcere non è nuova e ha una lunga storia di teorie filosofiche, suggestioni letterarie, manifesti politici e sperimentazioni. Il quesito al centro di questo volume è se la detenzione in carcere assolve il compito che dice di porsi: quello di strumento deterrente e risocializzante per promuovere maggiore sicurezza collettiva. In base alle ricerche specifiche degli autori la risposta è no. Il numero di carcerati e la recidiva mostrano che la prigione non diminuisce il tasso generale di criminalità, anzi: in quanto luogo di interazione tra diverse figure criminali, ne affina le capacità delinquenziali insediandole ancora più nel tessuto dell’illegalità. A questo contribuisce il fatto che i condannati escono spesso con meno salute, poche prospettive, sospetto nei confronti delle regole della società civile e delle sue istituzioni. La prigione dunque non dissuade dal compiere delitti, raramente rieduca, spesso riproduce crimini e criminali. Ciò – sostengono – non significa che la legge non serva e la giustizia non debba fare il suo corso. Il carcere però dovrebbe essere sostituito con misure – come quelle che limitano la libertà di movimento, che impediscono di compiere certi atti e costringono a realizzare qualcosa per la società – capaci di soddisfare tanto la domanda di sicurezza e risarcimento dei cittadini quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale a fine pena.