Amarcord Italia ’90
Più che di un Mondiale da dimenticare per molti tifosi, quello andato in scena tra giugno e luglio di trent’anni fa è stato il ritratto di un paese con ancora molte idee, nonostante i soliti immancabili difetti.
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Più degli occhi spiritati di Totò Schillaci, dei riccioli colombiani di Higuita e Valderrama, del calcio gioioso del Camerun e di un incazzatissimo Maradona che in Mondovisione ripete “Hijos de puta” sommerso dai fischi dell’Olimpico, viaggiare indietro nel tempo fino a Italia ’90 mi fa pensare a tre cose che con il calcio giocato hanno poco a che fare: il Televideo, le merendine e Ciao, l’iconica, orribile mascotte a metà tra i resti di un cubo di Rubik mai risolto e lanciato contro un muro per esasperazione e una manciata di tasselli di Tetris colorati male. Iconico e orribile sembrano in contraddizione, ma nell’Italia dell’epoca c’era ancora una tale fiducia nelle nostre capacità da partorire progetti discutibili senza porsi troppe domande: così nacquero la Duna, nuovi stadi inutilmente enormi e già vecchi prima ancora di dare un calcio al pallone, il robot Emilio e i capelli di Aldo Biscardi.
Bello ‘Ciao’…
Ciao rientra a pieno diritto in questa categoria, anzi è il riassunto perfetto – insieme a Notti magiche – di un’Italia orgogliosamente provinciale, che davanti allo straniero che ti diceva “pizza, spaghetti e mandolino”, ancora non s’indignava citando cuochi stellati e cantautori impegnati, ma annuiva soddisfatta. Eravamo riconoscibili. Eravamo più grandi di quanto non apparisse sul mappamondo. Eravamo semplici, forse persino più felici. O forse no. Ma ci piace ricordare che fosse così. Io avevo dodici anni, e a quell’età se non hai conosciuto disgrazie sei felice per forza.
Ero felice quando mia madre mi comprò al mercato del sabato una maglietta taroccata con sopra Ciao ed ero felice quando con mio padre andavamo a giocare più schedine del Totocalcio perché così potevo illudermi di scegliere il nome di quella mascotte per cui si erano addirittura inventati un concorso. Gli altri nomi in lizza erano Amico, Bimbo, Beniamino e Dribbly. Li avevano tirati fuori dei pubblicitari famosi. Il meglio, dicevano. Chissà il peggio. Eppure correvamo contenti a votarli sulle schedine. Ne discutevamo. Gente che si prendeva la briga di entrare in una ricevitoria e mettere una X su Beniamino. Poi vai a dire che non erano tempi più semplici. E dai gusti opinabili. La patria di Dante e Bernini se ne usciva con quello sgorbio, per di più con appiccicato un nome discutibile, qualunque fosse. Vinse quello più sensato e riconoscibile. E quindi Ciao, che spuntava dappertutto, sui cartonati dei benzinai e nei quaderni di scuola, sui costumi da bagno e nelle nostre case. Non ricordo se insieme al pupazzetto vendessero già una confezione di Attak inclusa, ma avrebbero dovuto. Non c’era un Ciao che non si rompesse dopo pochi secondi che lo tenevi in mano. E giù con la colla a renderlo ancora più brutto di quanto già non fosse.
Inni musicali
Degno compagno della mascotte era un altro gadget immancabile nelle camere dei ragazzini, la Jingle Ball. Altro prodigio della tecnica al contrario. Una palla con sopra attaccate le bandiere dei 24 Paesi partecipanti al Mondiale: se ne schiacciavi una riproduceva l’inno nazionale. Naturalmente dopo poco le bandierine si staccavano e tu non sapevi più qual era il loro posto originario. Il tutto mentre gli inni, con l’andare dei giorni, si mischiavano: alcuni comparivano quando non erano richiesti, altri scomparivano per sempre. Così ti ritrovavi ad ascoltare God Save The Queen dopo aver schiacciato la bandiera dell’Egitto o – sacrilegio – l’inno sovietico con il dito sopra la bandiera americana. E viceversa.
L’inno ufficiale della manifestazione era Notti magiche, e anche quello denotava un provincialismo talmente pieno di sé da riuscire nell’impresa di diventare una hit. Era brutto, ma siamo tornati ad ascoltarlo a 30 anni distanza. Attacchi di nostalgite. Capita. A rivederli oggi com’erano conciati allora, Edoardo Bennato e Gianna Nannini, vedi sempre in controluce il sogno americano. Lei con collanine, borchie e mosse a metà tra Madonna e Cyndi Lauper, lui clone Made in Naples di Bruce Springsteen, con giacche di jeans, chitarre a tracolla e a volte perfino la fascetta sulla fronte. Fanno tenerezza. E noi con loro, immersi in questo parco giochi che era Italia ’90. Poi che il Boss cantasse “Tramps like us baby we were born to run” e Bennato “Inseguendo un gol sotto il cielo di un’estate italiana” poco importa. All’epoca l’inglese non lo sapeva quasi nessuno. E noi ci sentivamo tutti promossi dalla sagra della porchetta alla Rock and Roll Hall of Fame.
Merendine (per adulti)
L’intero Paese avrebbe poi dovuto essere denunciato all’Organizzazione mondiale della sanità per via del concorso “Vinci Campione”, una trappola perfetta stracolma di zuccheri. In pratica, noi ragazzini venivamo bombardati da una pubblicità piena di campioni che ti dicevano “mangia più merendine che puoi e quando hai speso in dolciumi i soldi di un’intera muta di maglie, te ne regaliamo una. Una sola. Dove non riuscirai a entrare perché nel frattempo sarai ingrassato dieci chili”. Ecco, non dicevano proprio così, ma il senso era quello. Io ingollavo Fiesta dalla mattina alla sera: le intingevo a colazione nel latte. Non c’era una mattina in cui non lo facessi, inutilmente tra l’altro, perché erano idrorepellenti: avessi messo un mattone nella tazza sarebbe stato uguale. Ma andavano finite, e quindi giù Fiesta a scuola, dopo pranzo, a merenda. Venivano offerte a compagni di classe, amici, parenti, vicini di casa: non era generosità, servivano nuovi pacchi per avere i punti che ti avrebbero garantito l’agognata maglietta. Tra l’altro oggi, se digiti Fiesta su Google la prima cosa che esce è un articolo il cui titolo è “Fiesta non è una merendina per bambini: ha l’8,5% di liquore. I genitori lo sanno?”. No, non lo sapevano. O se ne infischiavano, che poi era il motivo per cui ci trovavamo con la Duna, Ciao e tutto il resto.
Maglie, tifo e controtifo
Forse noi bambini di Italia ’90 non eravamo felici, eravamo solo ubriachi. Chi può dirlo. Tant’è, dopo aver ingurgitato merendine su merendine arrivò il momento di scegliere la maglia. Volevo quella dell’Uruguay, ma mia madre si oppose. Mai capito cosa le avesse fatto di male l’Uruguay. Anche quella dell’Unione Sovietica era vietata. Secondo me le faceva paura l’enorme scritta sul petto CCCP: temeva mi rapisse l’Fbi o qualcosa del genere. Alla fine presi controvoglia quella del Brasile, squadra che non ho mai amato. E così la maglia per cui avevo devastato il mio giovane stomaco non la indossai quasi mai.
Tifavo contro il Brasile, l’Argentina e la Germania Ovest, che si chiamava ancora così nonostante il Muro lo avessero già tirato giù. Mi piacevano il Camerun (piaceva a tutti) e l’Irlanda perché sembravano in gita, non a un Mondiale. Arrivarono, contro ogni pronostico, entrambe ai quarti di finale: l’Eire uscì contro l’Italia, e fui contento, gli africani contro l’Inghilterra. E fui meno contento. Non mi perdevo un incontro, anche perché il giorno prima della gara inaugurale, Argentina-Camerun, ero andato con mio padre a ritirare il televisore nuovo. Lo schermo mi sembrava enorme. Aveva colori brillanti e, soprattutto, il Televideo, che in un’epoca pre-internet mi sembrava un prodigio degno della Nasa. Era già attivo da qualche anno, ma a casa mia arrivò solo alla vigilia dei Mondiali: rimanevo incantato davanti a quello schermo nero con le scritte colorate, aspettavo le pagine che giravano leggendo notizie di cui non mi fregava nulla per il solo piacere di vederle scorrere davanti agli occhi.
Quella finale
Quando arrivò il giorno di Italia-Argentina eravamo tutti convinti che la favola si sarebbe compiuta: l’Italia avrebbe battuto gli argentini brutti, sporchi e cattivi e sarebbe volata in finale. E invece no. E invece Zenga sbagliò quell’uscita, Caniggia fece quel gol, Donadoni e Serena sbagliarono quei due rigori. Piansi davanti alla tv, più per riflesso che altro: vedevo che lo facevano tutti, in campo e sugli spalti. Andai a dormire con quella speranza bambinesca che non fosse successo davvero. Quando il mattino dopo mi alzai, tardi, come in molte mattine d’estate, mio padre era andato a pescare, mia mamma era a fare la spesa e mio fratello dormiva. Non avevo nessuno a cui chiedere se fosse andata davvero così come ricordavo, se non fosse stato un brutto sogno. Se l’Italia era stata eliminata davvero. E allora accesi la tv e aprii il Televideo, che lui sapeva e non mentiva. L’Italia aveva perso ai rigori con l’Argentina. Mi voltai, guardai il mio Ciao portafortuna intrappolato nell’Attak e capii che le Notti Magiche erano davvero finite.