Sognare di sognarsi: tra mente, realtà e fantasie

Perduti in un mondo dove l’onirico incontra paure e necessità di evasione, immaginiamo l’impossibile. Ma perché lo facciamo e quali le possibili conseguenze?

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Chi di noi non ha mai fantasticato a occhi aperti, non fosse solo – com’è d’obbligo – nell’acquistare un biglietto della lotteria o nel giocare una schedina? Per alcune persone è solo una perdita di tempo, altre vi si dedicano deliberatamente. Comunque la si metta, è una forma di attività mentale generalizzata e diffusa, di cui quasi tutti hanno esperienza. Ma c’è dell’altro…


© Ticino7/Variante S. V.

“Sognare a occhi aperti o lasciare vagare la mente, seguendo pensieri auto-generatisi che divergono da ciò che stiamo facendo in quel momento, comporta probabilmente dei vantaggi evolutivi. Per esempio, consente di pianificare le attività che seguiranno a quella che stiamo svolgendo, ma anche di alleviare la noia, stimolare la creatività e, a un livello di elaborazione più profondo, estrapolare significato dalle esperienze, intessendo quindi la propria narrativa”, si legge in un contributo del 2018 (Soffer-Dudek & Somer, “Trapped in a Daydream: Daily Elevations in Maladaptive Daydreaming are Associated with Daily Psychopathological Symptoms”, Frontiers in Psychiatry, 2018). L’attività immaginativa rappresenta dunque una parte rilevante della nostra economia psichica, tanto che, anche se non ce ne accorgiamo, le nostre menti divagano da quanto stiamo facendo nel presente per quasi la metà del tempo che trascorriamo da svegli.
Il tipo di fantasticare descritto in apertura, però, è qualcosa di diverso da tutto questo: un’attitudine che da qualche anno gli psicologi hanno iniziato a indagare con più attenzione. Alcune persone, approdate alla psicoterapia per motivi diversi (ansia, insonnia, depressione ecc.), riferiscono di sogni a occhi aperti lunghi e pervasivi, caratterizzati da una ricchezza di dettagli che li rende oltremodo vividi e piacevoli da “sognare”, tanto da configurare una sorta di dipendenza psicologica che a tratti li rende preferibili alla realtà. È il Maladaptive Daydreaming (MD); in italiano, “sogni a occhi aperti disadattivi”, noto anche come Disturbo da fantasia compulsiva, sebbene quest’ultima definizione non sia del tutto appropriata poiché questo strano e affascinante sintomo non è ancora stato ufficialmente codificato come disturbo psicologico a sé stante. Ma le evidenze accumulate da circa vent’anni a questa parte da alcuni ricercatori, primo fra tutti lo psicologo Eli Somer, che ne ha coniato il nome, lasciano prevedere che a breve verrà riconosciuto come tale. Se fino a ora non è accaduto, è un po’ per quel suo mimetizzarsi in una consuetudine che, sebbene in misura diversa, ci riguarda tutti, e un po’ per via delle sue caratteristiche “ibride” che, sotto il profilo clinico, lo situano al crocevia fra i disturbi dissociativi, quelli ossessivo-compulsivi e l’area della dipendenza. 


© Daria Zaseda – iStock/dzoils.net

Rituali onirici

“Quando fantastico a occhi aperti spesso tengo in mano un oggetto, per esempio una gomma da cancellare o una biglia. Lo lancio in aria e lo riprendo al volo. Questo movimento monotono, ripetitivo, mi aiuta a concentrarmi sulla fantasia. Così è più facile sognare a occhi aperti perché non vengo distratto dalle altre cose presenti nella stanza” (E. Somer, “Maladaptive Daydreaming: a Qualitative Inquiry”, Journal of Contemporary Psychotherapy, 2002). Il ricorso a movimenti stereotipati, così come all’ascolto di musica con funzione evocativa, rivela la natura intrinsecamente dissociativa di questo tipo di fantasticare. La maggior parte dei soggetti intervistati riferisce di utilizzare questi elementi consapevolmente, in maniera ritualizzata, per indurre o facilitare l’accesso ai propri “para-cosmi” privati (MacKeith, 1983). Ogni qual volta lasciamo che la nostra attenzione venga assorbita da un singolo stimolo, che sia esterno (un libro, un film) o interno (un progetto, un’idea), trascurando altri stimoli ambientali, noi stiamo sperimentando una forma di normale, “benigna” dissociazione. All’estremità patologica del continuum, la capacità di “staccarsi” dalla realtà costruendo dimensioni parallele assume la forma dei disturbi dissociativi, che spesso traggono origine da esperienze avversative vissute in età infantile (negligenza, maltrattamento, abuso). Sembra esserci una stretta correlazione fra il fantasticare disadattivo e la sintomatologia dissociativa; tuttavia, i dati indicano che solo il 27% dei “sognatori” riporta in anamnesi traumi infantili. (E. Somer, “Maladaptive Daydreaming: ontological analysis, treatment rationale; a pilot case”, Frontiers in the Psychotherapy of Trauma and Dissociation, 2018). 
Accanto al tratto dissociativo, ovvero alla tendenza, di fatto innata, a immergersi nella fantasia, sono decisive la componente compulsiva e quella della dipendenza: “È seducente. E poi un giorno mi sono reso conto che ciò che avrebbe dovuto aiutarmi mi aveva intrappolato e che non riuscivo più a smettere… Ricordo che non volevo scendere in salotto perché era molto più divertente stare di sopra, al buio, a sognare”; “Qualche volta invento delle scuse per allontanarmi da casa in modo da poter stare da sola, senza la famiglia al seguito. Spesso ho bisogno di andarmene di casa per immergermi nei miei sogni” (E. Somer, L. Somer e D.S. Jopp, “Childhood Antecedents and Maintaining Factors in Maladaptive Daydreaming”, Journal of Nervous and Mental Disease, 2016). Molti soggetti riportano un ossessivo desiderio di fantasticare, molto simile all’urgenza sperimentata dalle persone con problemi di dipendenza, non tanto da sostanze quanto da attività compulsive (gioco d’azzardo, sesso, shopping, fitness). Questa “dipendenza” causa un disagio significativo e tende a interferire con il funzionamento relazionale, sociale, scolastico o lavorativo della persona: “È diventato un incubo, ora. Vorrei poter voltare pagina”; “È stato utile per sopravvivere alla mia infanzia ma, adesso che sono adulta, vorrei vivere la mia vita. Mi sta impedendo di vivere davvero” (E. Somer, L. Somer and D.S. Jopp, “Parallel Lives: a Phenomenological Study of the Lived Experience of Maladaptive Daydreaming”, Journal of Trauma and Dissociation, 2016).

Elaborare le paure

Ma che cosa sognano, esattamente, questi “super-sognatori”? I contenuti sono vari e altamente idiosincratici, ma è possibile individuare alcuni temi ricorrenti. Molti soggetti riferiscono di elaborare diverse trame contemporaneamente, passando dall’una all’altra e sviluppandole all’infinito, come le puntate di un telefilm. Molte di queste “storie” hanno a che fare con la famiglia e le relazioni: “Sogno di una famiglia, in particolare di un fratello e di una sorella di circa 17 anni, entrambi molto belli e di successo, che sono l’uno per l’altra migliori amici. Hanno moltissimi amici e si vogliono davvero bene, qualcosa che non ho mai provato nella realtà”. Queste fantasie tendono ad avere una valenza compensativa, così come quelle che hanno per oggetto lo status personale dell’individuo: “Il primo ricordo che ho è un sogno a occhi aperti in cui sto salvando qualcuno. Penso che fossi in prima o seconda elementare, e immaginavo che qualcosa di terribile succedesse ai miei compagni di classe, e io li salvavo, e ancora oggi mi capita di fantasticare su questo tipo di situazioni” (Ibidem). 
Anche se potrebbe apparire paradossale, non è infrequente che i “sognatori” elaborino trame a contenuto depressivo, o avversativo: “A volte sento il bisogno di immaginare situazioni negative per suscitare un certo tipo di sentimento dentro di me, che ovviamente non è positivo, ma lo faccio lo stesso. È un’altra delle dipendenze indotte dal fantasticare. Ci sono personaggi, nei miei sogni a occhi aperti, che non mi piacciono per niente, e io li rendo, tipo, il più odiosi possibile”. La peculiarità di questi sogni “negativi” è che risultano comunque gradevoli: un fenomeno che è stato definito “masochismo benigno” e che consiste nel provare piacere sentendo paura, angoscia o tristezza ma in condizioni di serenità e sicurezza. Come quando guardiamo un buon thriller, o un film che ci commuove. Anche in questo caso, il sogno a occhi aperti disadattivo nasce come una normale, comune forma di attività mentale che a un certo punto diventa pervasiva, riducendo in maniera anche significativa la qualità di vita della persona. Come in tutte le forme di dipendenza, il temporaneo sollievo ricavato dal sogno rende più tollerabile una realtà spesso vissuta come insoddisfacente, ma proprio per questo indebolisce la motivazione e, quindi, la potenzialità di un cambiamento.


© Daria Zaseda – iStock/dzoils.net

LOCKDOWN E SALUTE PSICOLOGICA

Si stima che il 38% della popolazione generale soggetta a restrizioni durante la pandemia da Covid-19 abbia sperimentato livelli elevati di stress psicologico sotto forma di paura e ansia, sintomi ossessivo-compulsivi, disturbi del sonno, ansia fobica, ipersensibilità e stress post-traumatico. Questi effetti sono risultati ancora più drammatici nella popolazione clinica, e le persone con sintomi di MD non fanno eccezione. Secondo uno studio pubblicato a novembre dello scorso anno, lockdown e distanziamento sociale hanno incrementato la frequenza e l’intensità del sogno a occhi aperti disadattivo, così come del gioco d’azzardo in rete, dell’uso problematico dello smartphone e del consumo di alcol (E. Somer et al., “Heightened Levels of MD are Associated with Covid-19 Lockdown, Pre-existing Psychiatric Diagnosis, and Intensified Psychological Dysfunctions: a Multi-country study”, Frontiers in Psychiatry, 2020). 

IL RIMEDIO: QUI E ORA

La Mindfulness è una pratica terapeutica derivata dalla meditazione Buddista (Kabat-Zinn, 2013) che ha dimostrato efficacia in relazione a diversi disturbi psicologici. Incentrata sulla capacità di “stare nel qui e ora”, la Mindfulness si configura come naturale antagonista a quel divergere dell’attenzione che è precondizione del Maladaptive Daydreaming. La pratica di questo tipo di meditazione risulta associata, fra le altre cose, a una significativa riduzione nell’uso di alcol, marijuana e cocaina-crack, e può dunque rappresentare un utile ausilio per contrastare la dipendenza da sogno a occhi aperti disadattivo. La Mindfulness può essere appresa seguendo un training, preferibilmente all’interno di un percorso psicoterapeutico integrato, che garantisca cioè la presa in carico non solo del singolo sintomo (che peraltro tende a presentarsi in comorbilità con sintomi ossessivo-compulsivi e dissociativi, e con deflessione del tono dell’umore), ma della persona nel suo insieme.

 

Articoli simili