Disavventure latine. Ecuador: la paura, la bellezza, l’Amazzonia

Sono entrato dentro l’Amazzonia ecuadoriana dopo sei ore di viaggio lungo il Rio Napo a bordo di una barchetta chiamata El Principe…

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Mi avevano detto che non c’era niente da vedere, che era brutto, sporco e cattivo. Che si mangiava male e beveva peggio. Che mi sarebbe costato troppo e mi avrebbe dato indietro poco. Che a un certo punto mi sarei chiesto – arrabbiato con me stesso – perché non il Brasile, le Canarie, l’Appenzello Interno. O il Molise. E che se volevo rischiare la pelle potevo almeno evitarmi un volo di dodici ore, visto che ci si può far ammazzare molto più vicino, se proprio ci tieni. Mi avevano detto che non si poteva uscire la sera, e forse nemmeno di giorno, che non si poteva prendere un autobus né entrare allo stadio. Così sono andato a vedere davvero com’è, l’Ecuador: senza ignorare i pericoli (che ci sono, eccome), ma abbracciando – ricambiato – tutto il resto. Ne è valsa la pena. Ve lo racconto qui.

“No, quello punge”. “Se lo tocchi, finisci all’ospedale”. “Questo è velenoso”. “Quello non si può mangiare”. “Attento che morde”. “Qui non si può fare il bagno”. “Non andare dove non posso vederti, è pericoloso”.

La meraviglia negli occhi

Andare in Amazzonia è come andare al mare da piccolo con tua madre, solo che – questa volta – se non segui i consigli, quel che ti viene prospettato potrebbe accadere davvero. Sono entrato dentro l’Amazzonia ecuadoriana dopo sei ore di viaggio lungo il Rio Napo a bordo di una barchetta chiamata El Principe capitanata da un marinaio d’acqua dolce dai modi vagamente cinematografici che tutti chiamano El Principe, anche se non ho mai capito le reali, rispettive dosi di riverenza e ironia che, mescolate, formavano il tono di chi ripeteva quel soprannome. Il dubbio, che mi è sorto subito, è diventato legittimo, a un certo punto, durante il viaggio di ritorno, quando per un paio di secondi ho temuto di trovarmi sbalzato in acqua.


© R.S.

Ma qui siamo ancora all’andata: un viaggio faticoso quanto strabiliante, in cui – dopo qualche ora – la voglia di arrivare di un corpo troppo stanco non riusciva a mettersi d’accordo con la voglia di non arrivare mai di occhi e cuore che si riempivano continuamente di meraviglia, tra bambini che raccoglievano viveri sotto un arcobaleno, moli che sembravano l’ultimo attracco prima della fine della civiltà, chiatte che trasportavano Tir, ex hotel galleggianti abbandonati a loro stessi e chilometri di nulla, ma un nulla – sia detto – disegnato benissimo. Solo farsi girare in bocca i nomi delle località è un viaggio, una pagina di realismo magico che non ha bisogno, per comporsi, di letterati e letteratura: Descanso, La Nueva Esperanza, Limoncocha, Providencia, El Retiro, Zamona, Oasis, Eden, Progreso, Capiten (con la e) Augusto Rivadeneira, Destino. Rileggi e ci sono già protagonisti, luoghi, titoli di capitoli e perfino quasi la trama di una storia accaldata, incasinata, sudata. Insomma, equatoriale. Avamposto dopo avamposto, El Principe saluta tutti con il suo gesto e soprattutto il suo ammiccamento alla Fonzie di Happy Days, che riesce insieme a essere sottile e plateale. Tutti lo conoscono e tutti lo salutano di rimando, in quel modo lì, sempre a metà tra vera gloria e sfottò.


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Sixto, un ‘perro’, ragni e formiche

Quando arrivo a destinazione, sul molo della comunità indigena Quechua (che qui chiamano Kwicha) di Alta Florencia è già quasi il tramonto. Mi accolgono un ragazzo, gentilissimo, che se ne va quasi subito, e un cane che – invece – non mi mollerà un secondo e mi farà fare il mio primo incontro ravvicinato, quello con una tarantola, che quasi mi sale su un piede. La mia guida locale, Sixto, mi dirà che non c’è molto da preoccuparsi con le tarantole, a meno che non ti cadano in testa quando scendono dagli alberi. Proprio così. Possono morderti, ma a un adulto non fanno granché male, o lanciarti la loro rete di peli urticanti, e in quel caso fa male, soprattutto se ti raggiungono in viso, ma di solito a più di un metro non riescono a lanciarla. Poco dopo scopro di avere due ragni ben più grandi di una tarantola nel mio bungalow. Gli indigeni mi rispondono che non fanno niente, che basta non disturbarli. L’idea che a qualcuno possa far paura un ragno grande quanto un gatto non sembra sfiorarli.


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La prima sera resto con la luce accesa confidando nel fatto che con la luce sembrano meno intenzionati a muoversi, la seconda e la terza mi consegno alla dea fortuna, un po’ abituato e un po’ rassegnato da una zanzariera nei cui buchi non solo possono passare gli insetti, ma gli stessi ragni. Quando, prima di coricarmi l’ultima notte, vedo che uno non è più al suo posto, mi chiedo se non sia più sicuro dormire fuori: ma ovviamente no. Questa è la vita di un aracnofobico che sceglie l’Amazzonia.


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Il tramonto, ‘atardecer’ in spagnolo

Come se non bastasse, ci sono formiche giganti che – sempre a detta di Sixto – con un morso possono lasciarti a letto con la febbre, con una decina mandarti malconcio in ospedale. Penso che tanto saranno da qualche parte, lontano, in un angolo inarrivabile di Amazzonia, e invece Sixto mi mostra la loro tana a portata di bungalow, quello con dentro i ragni e la mia paura. Con Sixto ci addentriamo poi nel sentiero che porta a un albero sacro per la sua comunità. Io ho una torcia, lui il suo inseparabile machete. Giro con uno sconosciuto nella foresta più grande del mondo, che lui conosce benissimo e io per niente; lui ha un machete e io una torcia, e mi preoccupo delle formiche. La vita, finché ne hai una, è solo questione di prospettiva.

Lungo il fiume

Sixto però non mi uccide, le formiche neanche. Rischia, in quei giorni, di farlo il cibo, tra i peggiori mai mangiati in vita mia. Niente di esotico, né larve o animali strani, solo poca roba, cucinata molto male. Le larve però lì si mangiano (sanno di burro, dice Sixto) e si spalmano anche addosso, in quanto curative: sono quelle di un coleottero che chiamano chontacuro. Sixto mi fa avvicinare con l’orecchio a un albero di palma al cui interno le larve si nutrono e crescono. Ed è vero, le sento masticare incessantemente e con gusto, almeno loro. I Quechua mangiano talvolta anche le tartarughe, la cui caccia è vietata. I più anziani, persino le scimmie. Anche se non si potrebbe fare e nemmeno dire. Ma le regole le fanno fuori dalla foresta, mentre loro ne sono i figli. Dovrei forse giudicarli, ma mica ci riesco.


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Nel frattempo Sixto mi porta a stupirmi in barca, dove mi imbatto, con l’incredulità di un bambino, nei timidi delfini rosa proprio al confine tra Ecuador e Perù, indicato da due cartelli scritti a mano e da due aste con le bandiere dei due Stati: nient’altro. Vedo uccelli variopinti, tucani, vari tipi di scimmie, i bradipi; mentre i caimani e altri animali si tengono lontani dal fiume: è la stagione umida e l’acqua è ovunque, meglio nascondersi. Al fiume vanno nella stagione secca, quando l’acqua è solo lì e non possono fare altrimenti. Con Sixto riusciamo anche a impantanarci in una palude e poi a ripartire, vedere Nuevo Rocafuerte, un villaggio sperduto di poche case che ha però uno spaccio, un barbiere e perfino l’insegna di un bar chiamato Relax, con in primo piano una bella ragazza in una posa provocante e una birra locale. Non c’è più il locale, non c’è mai stata la ragazza, mentre la birra si trova sempre.


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Sul confine fra Perù ed Ecuador

‘Saudade’

L’ultimo giorno, a colazione, mi offrono e mi fanno vedere come si fa la chicha, la bevanda alcolica fermentata fatta con la yucca di cui vanno ghiotti, e che Sixto beve al mattino al posto di latte e caffè, perché a quanto pare latte e caffè gli danno fastidio allo stomaco. Lo stesso capitava a un bagnino ligure che, di prima mattina, appena finito di rassettare la spiaggia, faceva colazione con croissant e Ceres perché il cappuccino gli faceva acidità: il mondo alla fine è piccolo. E anche molto alcolico.

Quando devo salutare Sixto, il cane, i ragni e tutto il resto penso che mi mancherà molto di quel mondo che è anche il mio eppure non mi appartiene, come io – in attesa del Wi-Fi – non appartengo a lui. Tornare si rivelerà un altro viaggio della speranza, con El Principe che per ben due volte rischia di far ribaltare la barca, incagliandosi nel fondale e facendoci fare una specie di piroetta. La prima volta El Principe gioca a fare quasi quello che l’ha fatto apposta, per ravvivarci il viaggio, la seconda ha la faccia di chi teme possa essercene una terza. Da chiacchierone e un po’ spaccone si fa sempre più silenzioso.

A destinazione ci arriviamo, e tanto mi basta. Corro a prendermi una birra ghiacciata, perché dopo sei ore di barca vuoi solo bere, poi cerco un ristorante perché dopo tre giorni di dieta Quechua vuoi anche mangiare. Però le meraviglie dell’Amazzonia non me le toglie più nessuno. Anche se un’occhiata extra in valigia per vedere che non ci fossero ragni, ammetto, l’ho data.

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