Perché i preti cattolici non si sposano?

Il celibato sacerdotale ha radici lontane e ragioni storiche, ma pure ‘pratiche’. Il Vescovo de Raemy e la Dottoressa Faggioli intavolano una riflessione.

Di Sara Rossi Guidicelli

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, inserto allegato a laRegione

Sono tempi di porte che si socchiudono. Per esempio: una squadra di storici universitari svizzeri ha avuto accesso ad archivi che hanno portato alla luce lo scandalo dei mille abusi documentati in ambito ecclesiastico dagli anni Cinquanta a oggi. Oppure: il presidente della Conferenza dei vescovi svizzeri, Monsignor Felix Gmür, ha detto che “è giunto il momento di abolire l’obbligo del celibato”. E ancora: Papa Francesco non esclude la possibilità che ci possano essere forme di benedizioni per le coppie omosessuali e persino che il “no” alle donne prete “può essere oggetto di studio”. Sono porte che si aprono e lasciano udire i venti del cambiamento, per alcuni tanto atteso, per altri da valutare attentamente. I giornalisti, comunque, ne approfittano per fare domande. Sappiamo bene che per mortificare la piaga della pedofilia bisogna seguire i bambini e non i preti: nessun ambito può dirsi fuori pericolo. È utile, però, analizzare le caratteristiche che potrebbero aver favorito questo fenomeno nel caso della Chiesa cattolica, come ad esempio la morale in ambito sessuale e il celibato obbligatorio.

Colpa di Gesù

Vado dal Vescovo, Monsignor Alain de Raemy, per chiedergli: perché c’è il celibato? Cosa significa per lei nel profondo? È da mettere in discussione? “Le rispondo con una battuta”, mi dice. “Il celibato esiste per colpa di Gesù. È lui che ha scelto così, in modo consapevole e significativo. All’epoca nel mondo ebraico i celibi non erano un modello: si favorivano le famiglie, la fertilità, la benedizione che sono i figli. Lui ha fatto questa scelta per venirci meglio incontro e come novità affidata ai suoi discepoli”. Il Vescovo mi racconta che quando ha sentito la chiamata si è stupito. “Volevo diventare architetto o diplomatico, poi ho capito che avrei intrapreso la strada del Signore. Così, ho preso anche io il celibato: come una condizione senza alternative. Poi, studiando teologia, tutto mi è sembrato confermare e non mettere in dubbio questa norma, anzi divenne una chiamata evidente. Personalmente, se mi guardo dentro veramente, non mi posso immaginare di vivere il sacerdozio in un altro modo. Gesù dice agli Apostoli: ‘Lasciate tutto e venite con me’ e così ho capito che Lui ha bisogno di me interamente affinché io possa darmi in modo totale. Non è un mestiere: è una vita!”. Altre confessioni cristiane lasciano la libera scelta ai loro ministri: i protestanti, gli ortodossi e alcuni cattolici orientali come maroniti, melkiti, siri, armeni e copti; diversa è la situazione dei vescovi, ai quali il celibato viene sempre chiesto, e un caso particolare è poi quello degli anglicani convertiti già sposati, che di fatto diventano preti cattolici di rito latino con moglie e figli. Uno spiraglio che mostra che la realtà può essere diversa, forse.


© Curia vescovile Lugano
Il Vescovo, Monsignor Alain de Raemy

In seminario

“La formazione come l’ho vissuta io non tiene conto abbastanza della gioventù”, dice il Vescovo. “Eravamo in maggioranza giovanissimi, avevamo vent’anni o poco più, e ci è mancata una preparazione, cioè qualcuno che ci dicesse più ‘scientificamente’ che un giorno ci sarebbero stati dei cambiamenti, che la strada sarebbe potuta diventare difficile. Non si approfondivano a sufficienza gli aspetti psicologici e affettivi, erano ambiti che venivano affrontati unicamente con un accompagnatore spirituale, in genere un sacerdote più anziano, o con qualche conferenza o seminario. Quando sono diventato parroco per la prima volta, ho sentito il bisogno di confrontarmi con alcuni amici sposati, per non rimanere da solo o fra presbiteri: una coppia con bambini piccoli, una coppia con figli adolescenti e una signora consacrata laica. Sono amici veri, di quelli che non dicono che va sempre tutto bene; ancora oggi per me sono grandi consiglieri”.

Durante il nostro incontro con Monsignor Alain de Raemy, è presente pure Carla Faggioli, psicologa e psicoterapeuta anche in ambito vocazionale, che ha lavorato per 16 anni al Seminario vicino a Pozzuoli (Napoli) e alla Scuola propedeutica al Seminario. Essa conferma che già da qualche decennio qualcosa si sta muovendo: “I tempi sono cambiati: ora nei seminari si prova a riflettere maggiormente su quello che vuol dire essere consacrato nella società odierna: studiare per diventare prete non significa isolarsi dal mondo, bensì immergersi in un ambiente che corrisponde al mondo reale in cui andranno a operare. Si ritiene fondamentale per la formazione far frequentare anche persone non celibi e non nubili, anche con competenze nell’ambito delle scienze umane, tra cui la mia figura…”.

La dottoressa cerca di capire dai seminaristi che cosa vogliano davvero, se la vocazione sia autentica. Poi, li mette di fronte alla prospettiva che nel tempo l’amore può cambiare. “È come dovrebbe essere la preparazione al matrimonio: all’inizio nessuno vuole saperne del fatto che l’attrazione fisica nel tempo evolve e la passione va coltivata, il rapporto nutrito. Si pensa che tutto continuerà con la stessa naturalezza e lo stesso eterno trasporto, senza l’impegno di mettersi in discussione. Bisogna però far sapere che le difficoltà capitano a tutti e che vanno affrontate preventivamente, prima di una vera e propria crisi”.

Con gli aspiranti pastori di anime, parla delle donne; molti hanno un’idea angelicata e idealizzata, altri le demonizzano, perché le vedono come un pericolo. Lei cerca di normalizzare questa raffigurazione, anche perché “laddove non c’è pari dignità nasce l’abuso, di differenti tipi. Confondere la diversità con la dignità dà adito a competizioni, soprusi e legami di dipendenza psicoaffettiva. È il pericolo di una gerarchia vissuta erroneamente come sinonimo di disparità: invece nella Chiesa la gerarchia dovrebbe rifarsi al modello di Gesù, che non usò le persone per i suoi interessi, ma per fare loro del bene. Allo stesso modo, i futuri consacrati si stanno inserendo in una struttura non democratica e questi meccanismi vanno capiti”. Insieme affrontano anche il tema della sessualità, che non deve essere un tabù, vissuta come un “peccato in cui non incappare”.


© Ti-Press
Carla Faggioli, psicologa vocazionale e psicoterapeuta

Una vita tra la gente

Gli esseri umani hanno bisogno di rapporti autentici, solo così possono affrontare le difficoltà della vita, del mestiere, delle rinunce richieste. La solitudine è un problema reale. Il villaggio, la parrocchia, la comunità stanno perdendo senso per tutti i membri della società e ci sono movimenti, sia religiosi sia laici, che provano a ricostruire una rete di relazioni. All’interno del clero ci sono alcuni esperimenti in corso, quali ad esempio la parrocchia condivisa: un gruppetto di parroci che si occupano di più parrocchie insieme, come un’équipe. È un modo per cercare di vivere in comunità, aprire il carattere, sviluppare contatti. Chiedo se in futuro i preti si sposeranno; il Vescovo sorride: “Non lo so. È legittimo parlarne, interrogarsi sul significato. La tradizione è lunga e profonda. Per me, il celibato è più una ricchezza da curare che un obbligo da non toccare. Comunque, se avverrà un cambiamento non sarà di certo per ottenere più adesioni o per essere più moderni. Perché non cambierà né il numero di cristiani né quello di preti: la crisi è una crisi di fede, che tocca anche le altre confessioni cristiane. E noi non siamo una ditta che va a caccia di clienti”. Secondo la dottoressa Faggioli tuttavia l’obbligo del celibato andrebbe abolito: “Dovrebbe essere una scelta”, afferma. “Così come la vita in comunità: per taluni è in armonia con gli aspetti della propria personalità, per talaltri no. Non siamo tutti uguali. Il punto fondamentale è verificare che non ci siano bisogni psichici irrisolti, che trovano soluzione illusoria in una vita di consacrazione. E credo che se il voto di castità o la promessa di celibato fossero scelte personali, maturate senza la fretta di arrivare all’ordinazione, mostrerebbero meglio la bellezza del loro valore”.

Chiedo se dopo il seminario ci sia un accompagnamento, una sorta di spazio di ascolto per chi fa parte della Chiesa e vuole parlare dei suoi problemi, di una crisi di vocazione, o di una tentazione… Il Vescovo mi risponde: “Abbiamo un accompagnamento intellettuale, sociologico, spirituale, teologico. Siamo preparati e seguiti nei nostri scopi pastorali. Ma, effettivamente, le grandi riflessioni su chi siamo, su quale strada stiamo camminando, come evolviamo, le dobbiamo fare troppo sovente da soli”… un po’ come tutti, mi verrebbe da aggiungere. Ma c’è un bel finale in questa storia: perché alla fine, al momento di congedarci dalla Diocesi, Monsignor de Raemy chiede alla Dottoressa Faggioli se lavora a tempo pieno. “Perché avremmo bisogno di una persona come lei, che organizzi momenti di incontro per parlare di questi temi, sollevare domande, stimolarci a cercare risposte…”. Carla Faggioli si illumina: “Per queste cose ho sempre tempo”. E si ripromettono di aprirsi la porta l’uno all’altra molto presto.

La testimonianza

Le parole sincere di Fra’ Edy

Ricordo un frate che mi aveva detto così: “Ho scelto l’ordine monastico perché mi sembrava l’unico modo per vivere una vita di celibato e castità. Trovavo pericoloso il sacerdozio, nessuno sa come può diventare dopo anni di solitudine, mancanza di affetti profondi, di qualcuno che ti aspetti a casa la sera, dopo una giornata di lavoro e di rinuncia a un istinto naturale come quello sessuale. E soprattutto dopo anni di paura di cadere, di essere debole e cedere alla tentazione. Il rischio c’è, credo, per tutti noi; il rischio di compiere atti indicibili, anche se tutti vorremmo poter dire ‘A me mai’”. Le sue parole sincere mi avevano colpita.


© Ti-Press
Fra’ Edy, frate cappuccino

Sono tornata da questo frate cappuccino, Fra’ Edy, di Faido, a chiedergli che cosa ne pensi oggi. Mi dice che della sua vita è sereno e contento; che da giovane le sue esperienze le aveva fatte e che al momento di prendere i voti ha obbedito a ciò che la Chiesa gli chiedeva, anche se non ne comprendeva il senso. Vivere nella comunità di frati cappuccini è di certo una gioia e un aiuto, ma se ci fosse stata l’opzione, come in altre confessioni, di un “sacerdozio uxorato”, avrebbe preso quella strada, soprattutto perché, mi confessa, gli sarebbe piaciuto diventare un buon papà. “È quello il lavoro più impegnativo del mondo, mica quello dei preti!” , scherza.

Secondo Fra’ Edy, non basterebbe eliminare “semplicemente” l’obbligo di celibato (per i preti) e il voto di castità (per frati e monaci): bisognerebbe riformare la Chiesa dalle fondamenta. Il fattore economico non è da sottovalutare, mi fa notare: chi li paga i preti con famiglia? La figura del parroco per ora è pensata così, per una persona con pochissimi bisogni propri. Fra’ Edy crede fermamente che sia sulla comunità che bisogna puntare, non tanto sui dogmi: è la vivacità dello stare insieme, in un paese, in un quartiere, tra pari e tra generazioni, che conta e che bisogna coltivare, far tornare. La religione lega le persone, quindi secondo lui poco importa se uno abbia o non abbia una famiglia propria, l’importante è che si prenda il tempo per stare con la sua gente, che vada a fare visita a chi ha bisogno, che diventi casa e accoglienza per le necessità umane che incontra. “Quanti sacerdoti fanno bene il loro servizio pur dovendo vivere qualcosa di nascosto, mentre ve ne sono altri in giro, che sono forse casti, ma rabbiosi e infelici!”, commenta e poi conclude: “Per fortuna, però, ci sono anche molte persone che ce la fanno a stare nei binari”.

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