Le verità “nascoste” di Manuel Maria Perrone
“Si può sacrificare un po’ di lusso in cambio di un po’ di partecipazione?”. Lui dice di sì e viaggia più leggero…
Di Sara Rossi Guidicelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, inserto allegato a laRegione
Ha vissuto e lavorato in molti Paesi, tra cui Argentina, Libano e Francia. È regista di teatro e di cinema, è venuto a contatto con gente ‘marginale’ di Marsiglia in progetti artistici; non nell’ottica di aiutare, ma per apprendere e acquisire uno sguardo diverso sul mondo. Di ogni cosa gli interessa il rovescio, la verità nascosta, la precarietà. A questa biografia aggiungerebbe che lavora part-time per il Vaticano come cardinale e che scrive ogni qualvolta trova un alfabeto…
Tutto un mondo nel corpo
Se c’è un’immagine del viaggio picaresco ai nostri giorni dalle nostre parti, per me è Manuel Maria Perrone seduto in un treno a raccontare le sue storie. È così che l’ho conosciuto, anche se è una di quelle persone già viste con gli amici tuoi, e la incontri sempre al Festival di Arzo, al Blues, al Festival di Locarno, alla Notte del Cortometraggio, insomma in tutti quei posti dove succedono belle cose e la gente si incontra e parla. Quella volta in treno stava andando nel deserto della Tunisia da alcuni pastori danzatori e raccontava del suo viaggio precedente: accompagnare un’asina a vedere il mondo. Già, che c’è di strano? Lo fa spesso, dato che uno dei suoi migliori amici è un allevatore di asini molto sensibile alla crescita spirituale dei suoi animali. Manuel, dice, è un napoletano nel corpo di uno svizzero. Gli aleggia intorno un’aria zingaresca; e pensare che sua nonna materna aveva vinto il concorso di ragazza più ariana della sua città, nella Germania del secolo scorso. Comunque, figlio di mamma vallesana e papà campano, Manuel è nato a Bellinzona, cresciuto in Ticino; ha perso il papà da piccolo, ma ne ha conservato l’immensa biblioteca e la famiglia a Napoli, presente, giocosa, capace di mischiare vita e morte in un mazzo di carte.
Un viaggio, per caso…
E così Manuel ha la faccia di uno che ha trovato il sistema per farcela, per restare allegro rispetto alle miserie della vita. Ha iniziato a fare teatro in Burkina Faso, perché quando a 18 anni, dopo il Liceo, ha spedito trenta lettere con richiesta di impiego ad altrettante compagnie teatrali, ha ricevuto una sola risposta: “Sono un falegname, vivo a Ouagadougou, non faccio teatro ma vieni pure da me”. Così è partito, nell’anno 2000. Dopo qualche mese girava il Paese insieme a un raccontastorie, un griot, come si dice da quelle parti, che portava nei villaggi il tema dell’infibulazione femminile. L’anno seguente è andato a studiare nella scuola teatrale Jacques Lecoq, cinque anni dopo lo troviamo a Buenos Aires, a lavorare con un gruppo di donne dai 70 ai 90 anni, a cavallo fra teatro e cinema e prima o dopo in uno squatter a Losanna. “L’artista è l’opposto dell’assistente sociale: crea il caos, non lo risolve. Non mi interessa l’arte che rilassa, rassicura, rasserena. Mi sento un giullare, di quelli che parlano alle ombre e all’inquietudine, che scendono nelle profondità del disagio umano”.
© Jean-Christophe Onno.
Amare gli errori…
Quello che gli interessa è avere paura insieme agli altri, arrabbiarsi in comunione con i suoi simili, amare e provare grandezza, ridere e conoscere la cattiveria e la meschinità, tutto fianco a fianco a colleghi, pubblico, gente che unita forma un mondo di riti e sincretismo. Per questo il teatro in un certo senso gli dà di più, perché quando lo spettacolo è pronto tutto inizia, mentre quando un film è finito tutto il lavoro di creazione si è concluso. Però il cinema è divertente, e sul tavolo in questo momento Manuel Perrone ha una sceneggiatura che coinvolge sette vecchiette straordinarie, da Geraldine Chaplin a Claudia Cardinale (con cui ha già lavorato in un piccolo gioiello l’anno passato), da Gardi Hutter a Hanna Schygulla e Milena Vukotic, tutte suore di un convento che la società vuole trasformare in una casa per anziani di lusso. La perdita del rito, del raccoglimento, del sacro. La resistenza delle monache è la resistenza di Manuel, giullare e griot. A lui piacciono la vecchiaia, la fragilità, l’errore, perché svelano i caratteri, rendono più intrigante e comprensibile la vita. Quando sua figlia Maya, che sta imparando a camminare, inciampa lui le grida: ‘Brava cipolla!’ , e ridono perché hanno trasformato una caduta in un’acrobazia. Manuel ha uno stile di vita libero e sobrio: “Non difendo la precarietà come un valore, ma so che esiste, è una condizione con cui fare i conti. Mi batto contro la mancanza di tempo per gli incontri, di spazi per la cultura, di soldi per l’arte. Si può sacrificare un po’ di lusso in cambio di un po’ di partecipazione?”. Lui dice di sì e viaggia più leggero.
… e l’improvvisazione
Quando gli chiedo che cosa lo renda contento, mi risponde senza esitare: “Maya, perché è il presente assoluto”. E a Maya cosa piace? “Dire di no, il pane, camminare”. E poi a lui dà gioia preparare la cena per gli amici che ancora non si conoscono e soprattutto: improvvisare. Improvvisare ha qualcosa di divino, mi spiega: d’improvviso ti esce una cosa che non sai neanche tu perché l’hai detta. È come se una parte di divinità fosse entrata in te, chissà da dove, e ti connetta con qualcosa di verticale. Da ateo, ammette di invidiare la potenza della religione e la forza scenica del Vaticano. Infatti, con la compagnia svizzera ‘Syndrome de Jérusalem’ organizza messe teatrali su temi di attualità; sono riti collettivi che paiono un incrocio tra Fellini, il Cirque du Soleil e un incubo che speriamo di rifare ancora e ancora e ancora.
© Maria Andreani