Massimo Pedrazzini: di immagini e di obiettivi

Dall’apprendistato a Locarno ai grandi palchi, dai maestri del jazz a Francesco: 40 anni sempre con la macchina pronta, perché la passione non si spegne

Di Moreno Invernizzi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione. 

Nasce a Losone nel 1965 e nel 1985 termina l’apprendistato di fotografo. Assolta la scuola reclute, l’anno successivo apre il suo studio, ‘a Locarno, in casa di mia nonna. Poi, quando la casa è stata demolita nell’ambito dei lavori di costruzione della Mappo-Morettina, mi sono trasferito a Losone, dove mi trovo ancora oggi’. Nel suo obiettivo sono finite anche le stelle di Moon & Stars, di cui è stato il fotografo ufficiale e da parecchi anni è pure quello del Jazz Ascona. Dalla musica a un’altra arte, quella del cinema, perché dal 1993 fa parte del team di fotografi del Festival del film di Locarno. Con e per la fotografia ha anche girato il mondo: da New Orleans a Houston, passando per il Nicaragua (per l’associazione per l’Aiuto medico al Centro America), senza dimenticare le Galapagos, l’Ecuador, il Tibet, Liverpool, e Venezia. Ma non è finita qui…

Alla fotografia Massimo ci è arrivato un po’ per caso e un po’ per passione. Una passione coltivata già da adolescente: “Al Ginnasio, per la precisione. È lì che avevo scelto la fotografia come opzione. A dire la verità (ride, ndr) perché era la più semplice tra quelle possibili: tedesco, inglese o altro non è che mi attirassero particolarmente. Men che meno il francese, che in quarta ginnasio mi costò la bocciatura e il conseguente rinvio alla Commercio di Bellinzona. A quel punto ho fatto ‘clic’: ho preso la palla al balzo e deciso di fare della mia passione una professione”. E di quei ‘clic’, da allora, ne ha fatti a milioni visto che 40 anni dopo continua a guardare il mondo attraverso quell’obiettivo che l’aveva affascinato da adolescente. Dapprima, nel 1981, l’apprendistato da Garbani a Muralto: quattro anni dopo eccolo col diploma in mano. E con una carriera tutta da scrivere e immortalare. Anche in grigioverde, e pure qui nel solco della sua passione. Anzi, delle sue passioni, al plurale: “Oltre a quella per la fotografia, fin da bambino coltivavo quella per gli aerei. E così mi sono fatto incorporare come fotografo d’aviazione. Che, per inciso, non vola ma sviluppa e stampa foto. Però, bene o male, a terra gli aerei potevi guardarli da vicino e pure toccarli. Era un impiego di responsabilità: un errore in camera oscura rischiava di richiedere un volo supplementare al pilota, con i relativi costi extra”.

Pioniere del digitale

La vera rivoluzione nel mondo della fotografia è stata il passaggio dal rullino al digitale: come l’ha vissuta un professionista questa novità? “È stato un cambiamento radicale. Personalmente sono sempre stato appassionato alla tecnica, così da subito ho voluto provare questa novità: sono stato tra i primissimi fotografi in Ticino a passare al digitale, senza però lasciare completamente la pellicola. All’inizio la fotografia digitale era appannaggio quasi esclusivamente dei fotografi di cronaca. Per questi ultimi ha, sulle prime, portato un po’ di calma, tramutatasi in pochi anni in un ulteriore stress: quando le foto si sviluppavano non c’era quell’urgenza che oggi è invece una costante, rafforzata dall’avvento di altri vettori mediatici. D’altro canto la pellicola ti dava più insicurezza: la prova del nove l’avevi solo in camera oscura, dove ti rendevi effettivamente conto se una foto era riuscita o se andava rifatta. Una volta, poi, giornalista e fotografo andavano più spesso assieme sul campo”.
Il passaggio al digitale ha spostato parte del lavoro di un fotografo dietro al monitor del computer per la post-produzione: è più importante il lavoro preparatorio a uno scatto o quel che viene dopo? “Più tempo si investe nel curare tutti i dettagli al momento dello scatto, meno tempo si dovrà passare al computer per lavorare le immagini. La mia filosofia è ‘cerca di farla il meglio possibile subito’ , investi qualche minuto in più, piuttosto di spendere ore al computer per correggere i dettagli”.


© Massimo Pedrazzini

Tra droni ed elicotteri

Nel processo di evoluzione della fotografia non c’è stato solo il passaggio dal rullino al digitale: anche la comparsa dei droni ha segnato l’inizio di una nuova era nel mondo delle riprese, video e fotografiche: “Il drone è un utile strumento, in particolare per le riprese in quota, per le quali un tempo si doveva far capo all’elicottero. Ma va usato con parsimonia, e pure con testa, visto che per il suo impiego ci sono prescrizioni e ordinanze da rispettare”.
Ma, in quota, Massimo Pedrazzini ci sale anche regolarmente con la Rega: “A introdurmi a questo mondo è stato un amico, Pierre Pedroli, assieme al quale nel 1986 avevo realizzato un reportage accompagnando le riprese per una serie di servizi sulle stazioni invernali realizzata dall’allora TSI. Ci spostavamo con due elicotteri uno dei quali della Rega, il glorioso Alouette III. Parte di quelle foto è poi arrivata alla sede centrale di Zurigo, che mi contattò per propormi di diventare un loro fotografo. Parallelamente iniziavo anche l’attività di addetto allo stand nelle esposizioni sotto la guida di Giorgio Wedtgrube. Negli ultimi anni, essendo l’elicottero in servizio sempre lo stesso – per il quale abbiamo migliaia di foto – volo molto più raramente. Durante un intervento cerco di stare in disparte: l’occhio dell’obiettivo deve catturare ciò che vede senza intralciare i professionisti: quando mi dicono che non si sono nemmeno accorti della mia presenza, capisco di aver fatto un buon lavoro. A terra, invece, sono uno degli addetti per le visite alla base di Magadino”.


© Massimo Pedrazzini

Da Vasco a Francesco

La foto più particolare? “Personaggi ne ho immortalati tanti”. I papi? “Sì, Ratzinger e Bergoglio, con cui ho una foto in cui posiamo assieme. E poi, tra Festival del film, Jazz Ascona e Moon & Stars, di personaggi pubblici ne ho visti e fotografati un’infinità”. I soggetti più difficili da inquadrare chi sono? “Quelli più alla mano sono i jazzisti, con cui il rapporto va oltre l’obiettivo. Poi ci sono due tipi di ‘Vip’: quelli che lo sono per davvero e quelli che si atteggiano a tali pur non essendolo. E ovviamente è più complicato lavorare con questi ultimi”. E uno come Vasco Rossi? “L’ho fotografato parecchie volte. La prima, nel 1982, fu al famoso locale Le Stelle di Ascona: un concerto per pochi intimi fatte le proporzioni coi fan che smuove oggi. Quelle foto le ho recuperate e gliele ho consegnate in occasione del suo ultimo concerto a Locarno: una copia per lui e una per me di ciascuna, me le ha autografate tutte”.

 

 

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