Monsieur Hulot e la comicità in punta di piedi

Nel 1971 il signore col cappello in testa e la pipa in bocca faceva la sua ultima apparizione al cinema. E la sua dissacrante ironia diventava immortale

Di Igor Fardin

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Il film Trafic (Monsieur Hulot nel caos del traffico) apparso mezzo secolo fa, è stato l’ultimo in cui il cineasta Jacques Tati ha impersonato questo timido sognatore che, a decenni di distanza, riesce ancora a farci ridere e pensare. Ma andiamo con ordine. Il debutto del personaggio risale al 1953 con Le Vacanze di Monsieur Hulot. Qui, questo signore che fatica ad adattarsi ai riti e ai ritmi della società che lo circonda riesce, con poesia e delicatezza, a mettere in evidenza il ridicolo del cosiddetto “dovere delle vacanze”. Come ha scritto il critico André Bazin, Hulot “afferma che l’imprevisto può sempre giungere a disturbare l’ordine degli imbecilli”. Hulot non è però uno sfrontato ribelle, tutto il contrario. È un signore timido e cortese che si trova, suo malgrado, a fare da detonatore di gag e imprevisti comici. Hulot non vuole provocare nessuno, anzi fa del suo meglio per adattarsi. Al contrario di Charlot, non dà vita alla gag, la subisce, ne è il protagonista involontario, un po’ come Buster Keaton.

Velleità ambulante e Signor Chiunque 

Monsieur Hulot è però rimasto meno impresso nell’immaginario collettivo rispetto a Chaplin e Keaton. Forse, questo è anche dovuto all’essenza stessa di Hulot, anch’essa ben compresa da Bazin: “Monsieur Hulot sembra non osare esistere del tutto. È una velleità ambulante, una discrezione dell’essere. Innalza la timidezza all’altezza di un principio ontologico!”. Come ricordare facilmente un personaggio comico la cui essenza e comicità risiedono nel non osare esistere del tutto? D’altronde non poteva essere altrimenti per Hulot, che Tati ha creato affinché rappresentasse un Signor Chiunque: qualcuno in grado di trasmettere l’idea che chiunque, se osserva, può far ridere.

Un uomo del suo tempo 

Nonostante la sua timidezza, Hulot è rimasto sugli schermi abbastanza a lungo per descrivere i cambiamenti e le contraddizioni che hanno segnato la società francese dei Trente Glorieuses (1945-1975). Per dirla con le parole dello stesso Tati: “Siamo in un mondo che lavora per i primi quattro. I primi quattro che andranno sulla Luna. Hulot lavora per il quinto e per quelli che vengono dopo”. È su queste contraddizioni che si basa Mon Oncle (Mio Zio del 1958), il secondo film in cui appare Hulot. Da una parte abbiamo gli Arpel: lui imprenditore di successo, lei casalinga in una villa moderna pensata più per essere mostrata che abitata, una casa in cui “tutto comunica”. Dall’altra, Hulot: il fratello della signora Arpel che vive in un quartiere popolare decisamente poco funzionale e non ha un lavoro stabile. A unire i due mondi è Gerard, il figlio degli Arpel. Gerard adora suo zio Hulot e passa tutto il tempo che può nel suo mondo umano e spontaneo, in netto contrasto con la vita in linea retta degli Arpel. 


Fotogramma tratto da “Mon Oncle”.

Siamo tutti Monsieur Hulot

In Mio Zio Hulot si fa ancora più timido rispetto al film precedente, in nome dell’idea che chiunque può far ridere. In questo film, l’inadeguatezza di Hulot diventa quella di una società intera, incapace di adattarsi al progresso che ha creato per sé o sottomessa a esso. Un tema che Tati riprenderà in Playtime (1967) e Trafic (1971). In Trafic Hulot è alle prese con il mondo dell’automobile e i comportamenti che essa ha creato. Pur essendo ancora il detonatore delle gag, questo gentile signore lascia che siano le auto stesse e il loro mondo a produrle. In Playtime si trova invece confrontato con un’ipotetica Parigi degli anni Ottanta dominata dal vetro e dall’acciaio, dalla linea retta e dalla funzionalità. In questo mondo Hulot è più che mai inadatto e continua a creare imprevisti e gag, ma non è il solo. È qui, forse più che negli altri film, che Hulot lascia che siano gli altri personaggi a far ridere, anche se spesso li aiuta creando, suo malgrado, il disordine necessario. 
La gentilezza di Hulot e la volontà di democratizzare la gag di Tati si spingono ancora più lontano proprio in Playtime, arrivando a coinvolgere anche noi spettatori. La fine del film è emblematica: prima di uscire di scena, il protagonista regala un mazzo di mughetti a una giovane turista. Attraverso questo gesto, e grazie alle inquadrature di Tati, Hulot suggerisce il parallelo tra i fiori e i lampioni di un’autostrada e tra una rotonda e una giostra. Il timido Hulot se ne va così senza farsi notare ma lasciandoci qualcosa del suo modo di guardare il mondo, qualcosa che resta anche dopo la fine del film. Per questo Tati ha voluto che Playtime non avesse una sigla finale, in modo che “il film cominci quando lasciate la sala”.

UN PERSONAGGIO IN SETTE TRATTI

1. Il nome
Hulot è il nome dell’architetto che ha disegnato la casa in cui è cresciuto Jacques Tati. Quando qualcosa non andava, la portinaia diceva sempre “bisogna chiamare Monsieur Hulot” e sembra che questa frase, insieme alla silhouette particolare dell’architetto, sia rimasta impressa nel giovane Tati. È così che, molti anni dopo, ha deciso di chiamare il suo personaggio Hulot. 

2. Il cappello
Monsieur Hulot ha preso in prestito il suo cappello da un apprendista parrucchiere che Tati ha conosciuto durante il servizio militare. Un ragazzo con la paura dei cavalli finito, chissà come, in un reggimento di cavalleria. 

3. La pipa
La pipa, il tratto più caratteristico di Monsieur Hulot, dà al personaggio la sua aria da Monsieur e, soprattutto, gli impedisce di parlare. Hulot infatti, pipa in bocca, non è mai in grado di spiegarsi chiaramente. Questa difficoltà di comunicare ne sottolinea la timidezza e aiuta a creare il disordine propizio alla gag. 

4. L’ombrello
Hulot porta sempre con sé un ombrello, un gadget piuttosto inutile perché nei film di Tati non piove praticamente mai. L’inutile ombrello però, insieme alla pipa, conferisce a Hulot il suo fascino da signore di altri tempi, al di fuori dei riti e dei ritmi della vita moderna. 

5. La voce e il suono
Anche nei rari momenti in cui si toglie la pipa di bocca, Hulot è praticamente incapace di parlare come facciamo noi. Usa il linguaggio più come farebbe un merlo, senza divisione tra significato e significante. Questo uso del linguaggio come pura comunicazione gli permette di esprimersi con la voce ma anche con i suoni degli oggetti. Dei suoni curati con estrema attenzione dallo stesso Tati. 

6. La camminata 
Hulot cammina sulle punte dei piedi e non si regge praticamente mai dritto, è quasi sempre piegato in avanti, pronto a rendersi disponibile e ad aiutare. Questa andatura dinoccolata aggiunge raffinatezza e gentilezza alla sua persona e, secondo Tati, definisce bene l’essenza del personaggio: un essere lunare con i piedi per terra.

7. Le automobili
La prima volta che Hulot appare su uno schermo lo fa all’interno di una vecchia macchina sgangherata che sembra avere una volontà propria e che produrrà una serie di divertenti gag. A partire da questa apparizione, le automobili lo circonderanno sempre. In alcuni casi, come in Trafic o ne Le Vacanze di Monsieur Hulot, assumono caratteristiche umane; in altri, come in Playtime e Mio Zio, si fanno bellissimi ma freddi simboli della modernità.

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