Non è un gioco

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Di laRegione

Per distinguere una persona «normale» da un pericoloso sociopatico basta farci una partita a Risiko, Monopoly o affini. Dev’essere per quello che li chiamano «giochi di società»: mettono alla prova l’umana capacità di vivere col prossimo senza trasformarsi in efferati serial killer. Svariate sono le abilità richieste per comportarsi decentemente davanti a dadi e pedine. Ne ricordo solo alcune: 1) la pazienza, fondamentale per sopportare le attese, le provocazioni e quel conoscente che ti distrae parlando delle sue vacanze a Cattolica; 2) l’autocontrollo, per impostare una strategia lungimirante ma, soprattutto, per non scolarsi tutto il cognac servito dai padroni di casa e finire con la faccia sul tabellone (poi valli a rimettere a posto, i carrarmatini); 3) la freddezza, per non tradire le proprie emozioni a vantaggio degli avversari, ma anche per evitare risse da saloon; 4) la fiducia in sé stessi, per non vivere un’eventuale sconfitta come l’incontrovertibile dimostrazione della propria inferiorità antropologica. Per questo mi è difficile capire cosa spinga persone nel pieno possesso delle loro facoltà mentali a ritrovarsi per far giochi di società (l’affascinante realtà che Daniela Carugati ci fa rivivere a pagina 4). Ma forse la risposta è proprio lì: sono nel pieno possesso delle loro facoltà mentali. Non ucciderebbero pur di vincere una mano. Non ritengono che perdere a Trivial Pursuit equivalga alla revoca immediata di tutti i loro titoli di studio.
E riescono a sopportare gli altri, perfino a divertircisi. Beati loro.

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