Toto Cutugno. Un italiano e tutto il Belpaese dietro

Una chitarra, gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente. Vi serve altro? Non credo…

Di Lorenzo Erroi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Nei quarant’anni dalla sua uscita, il 4 febbraio del 1983, ‘L’italiano’ di Toto Cutugno ha superato tutte le tappe d’obbligo per diventare un classico, un po’ come certi intellettuali che secondo Alberto Arbasino passano da “bella promessa” a “solito stronzo” per poi assurgere – ma è concesso a pochi eletti – al ruolo di “venerato maestro”. ‘Lasciatemi cantare’ – così molti di noi tornano a cercarla su Spotify e affini – ha attraversato gli anni con lo stesso imprevedibile destino di un’autoradio rubata, con buona pace del protagonista che per sicurezza se la portava “sempre nella mano destra”: prima successone pop; poi malinconica reliquia d’un passato di cui vergognarsi un po’, come di certe Polaroid del matrimonio; infine opera che racchiude come nell’ambra non solo un’epoca, ma appunti per un’identità di popolo, per quanto confusa e contraddittoria.


Toto insieme ad alcuni amici nella villa di Adriano Celentano. tra essi Memo Dittongo col pallone sottobraccio e, in basso da sinistra, Giacomo e Adriano Celentano, e Cristiano Minellono (autore del testo).

Il segreto è la rima

Il segreto è probabilmente nelle rime, opera di quel Cristiano Minellono al quale si devono centinaia di canzoni e parecchie hit tra le quali ‘Felicità’ (Al Bano e Romina) e ‘Il gatto puzzolone’ (Zecchino d’Oro). È lì che s’incontrano l’alto e il basso dell’italianità intesa come categoria dello Spirito, lo yin e lo yang del tao nazionalpopolare: “gli spaghetti al dente” che imboccano “un partigiano come presidente” (l’immenso Sandro Pertini), l’”Italia che non si spaventa” (degli anni di piombo) ma si rade “con la crema da barba alla menta” (degli anni di Squibb). E poi quel misto di cattolicesimo da sacrestia e vittimismo che solo contraddistingue l’”italiano vero”, scrivente compreso, espresso da un distico in acrobatico equilibrio tra Giobbe e Calimero: “Buongiorno Dio / Lo sai che ci sono anch’io?”.
Mentre ci si strugge – in questo costante ancheggiare tra lo spirituale e il carnale – per la lontana “Maria con gli occhi pieni di malinconia” , basta chiudere gli occhi ed è subito Alfasud, permanenti cotonate e pizzerie della provincia bavarese, là dove inossidabili paisà avrebbero garantito la sopravvivenza di Cutugno ben oltre la sua data di scadenza. E dove sarei tornato vent’anni dopo – pischello universitario con più spocchia che cultura, evidentemente traviato dalla “troppa America sui manifesti” – per inciampare nella commozione. Perché lassù c’erano ancora, il “vestito gessato sul blu” e il “canarino sopra la finestra”. E anche la “bandiera in tintoria”, sebbene la “Seicento giù di carrozzeria” fosse stata sostituita da improbabili Golf GTI – rigorosamente nere – con minigonne laterali, assetto ribassato e scarico truccato.

Il riflusso, ovviamente

È anche una canzone intima, ‘L’italiano’, una canzone “col caffè ristretto” e “le calze nuove nel primo cassetto”, in ossequio a quello che all’epoca si chiamava, soprattutto a sinistra, il “riflusso” nel privato. Dagli poi torto, dopo gli anni delle gonadi sfrante dagli Inti-Illimani alle Feste dell’Unità, dei “compagni dai campi e dalle officine” il cui inventore passò poi alle tivù di Berlusconi, del bombarolo che in De André rimava tragicamente con tritolo. Dopo il piombo, i cornetti caldi: l’Italia del Totocalcio e dei Bar Sport, risposta ruspante alle Case del Popolo un attimo prima che tutto, ma proprio tutto fosse inghiottito dall’edonismo berlucraxiano (anticipato d’altronde, in quello stesso 1983, dalle profetiche Vacanze di Natale dei fratelli Vanzina, coi loro bauscia “da casello a casello in un giro di Rolex”).

L’Italia, nonostante tutto

Era anche, ed è ancora, l’Italia nonostante tutto , gran titolo di quel genio che fu Edmondo Berselli. E pazienza se adesso alcuni bordi di quella cartolina si sono ingialliti, se ci pare buffo il videoclip con Cutugno tra i grissini e l’acquario d’una locanda d’emigranti, stucchevole il suo dare buffetti alle cameriere in divise tricolore e schitarrare in playback su un’aiuola davanti all’Arc du Triomphe (l’avesse fatto in Svizzera, l’avrebbero arrestato). Perché in fondo lo sappiamo che quel Toto lì – monociglio, capellone carenato, abbigliamento a metà tra un Latin lover e un meccanico poco raccomandabile – è anche noi: noi che non vogliamo più essere chiamati emigranti, ma expat. Noi che però rientriamo da Brogeda con la bagnarola in impennata per via delle provviste di mammà, ridiamo con Pasquale Amitrano e c’incazziamo se qualcuno ci dà dei badini. Noi che “lasciatemi cantareeeeeeee…”.

PS: si ringraziano per la pazienza i colleghi e vicini di scrivania che hanno sopportato il reiterato ascolto de ‘L’italiano’ – spesso con annesso karaoke – senza chiamare gli agenti di Polizia.

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