Asino chi legge: scheletri letterari e fantasmi della critica

“Accipicchia! E così lei è un poeta? E, ci dica, le piace scrivere poesie? Ne scrive molte?”

Di Valerio Rosa

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Il giovane Mike Bongiorno arriva in Italia; è appena sbarcato dall’America e ha la più pallida idea di chi sia Giuseppe Ungaretti. Inevitabile che l’incontro professionale entri nella storia. Mike non conosceva nemmeno il francese: quando gli piazzarono davanti al microfono il regista Marcel Carné – che per parte sua non spiccicava una parola in italiano – l’intervista si risolse in un patetico dialogo tra sordi. I dirigenti della neonata televisione italiana si raccomandarono allora che gli ospiti della trasmissione Arrivi e partenze (1953-1955) fossero italofoni o, tutt’al più, anglofoni. Ma l’autore dell’emissione, quella lenza di Ugo Gregoretti, escogitò una delle gregorettate per le quali si stava guadagnando la fama del guascone ingestibile: scrisse ai superiori di aver saputo da fonte attendibile che il celebre pittore aragonese Francisco Goya – autore di capolavori come la ‘Maja desnuda’ e il ‘Ritratto dell’infanta Maria Josefa’ – si trovava a Roma in stretto incognito ma, incuriosito dalla televisione, che in Spagna ancora non c’era, si sarebbe fatto intervistare volentieri, però in castigliano, non parlando purtroppo altre lingue. La risposta, sussiegosa e imbarazzata, fu più o meno questa: onorati dalla disponibilità del maestro Goya, la cui importanza nella pittura contemporanea è a tutti nota, non possiamo tuttavia invitarlo per ragioni tecnico-linguistiche.

Cubisti che non lo erano

Pochi anni dopo, un altro spagnolo, lo scrittore Max Aub, ne combina una peggiore: pubblica la monografia di un altro pittore, il cubista Jusep Torres Campalans, amico di Picasso e della sua cerchia. Aub lo incontra casualmente in Messico, lo intervista e ne ricostruisce la biografia, l’estetica e le vicissitudini, inquadrandole nella storia degli avvenimenti artistici, letterari e musicali a cavallo tra il XIX e il XX secolo, corredando il tutto con riproduzioni delle sue opere più rappresentative. Il libro scatena l’entusiasmo degli storici dell’arte: alla riscoperta del pittore dimenticato fanno seguito mostre, articoli, saggi accademici. A nulla valgono gli avvertimenti e gli indizi disseminati da Aub (dopo una citazione di Gracián, il libro si apre con una frase, “Come può esserci verità senza bugia?”, attribuita al fantomatico Santiago de Alvarado; poco più avanti, nel prologo è maliziosamente scritto: “Gli amanti delle prefazioni – ce n’è di quelli che si sforzano di scoprirvi quel che non è del tutto scoperto nei libri – si rifacciano pure alla migliore di tutte: quella del Don Chisciotte“), che confesserà di essersi inventato tutto e di aver dipinto lui stesso, insieme alla nipotina, gli ormai celebrati e quotatissimi quadri di Torres Campalans.


Max Aub Mohrenwitz (1903-1972), scrittore, drammaturgo e poeta spagnolo.

Il colpo di Gary

La presa in giro suprema è però quella architettata da Romain Gary: già vincitore nel 1956 del Prix Goncourt (che per statuto non può essere attribuito più di una volta allo stesso scrittore), riesce nuovamente ad aggiudicarselo nel 1975 con La vita davanti a sé, firmato con lo pseudonimo di Émile Ajar. Per vedere di nascosto l’effetto che fa, incarica il nipote, Paul Pavlovitch, di reggergli il gioco impersonando Ajar nelle inevitabili occasioni pubbliche. Funziona talmente bene che a nome di Ajar escono altri due libri, tra cui un’autobiografia beffardamente intitolata Pseudo, scritta per non insospettire i giornalisti che hanno scoperto la vera identità (e la parentela con Gary) di Pavlovitch. Il protagonista è uno zio tirannico, in cui è facile riconoscere lo stesso Gary. Non un capolavoro, secondo il recensore de L’Express, che anzi lo definisce “un libro vomitato frettolosamente da un giovane scrittore che è diventato famoso e si è montato la testa”. La finzione verrà svelata soltanto nel 1981, un anno dopo il suicidio di Gary, nel libro-testamento Vita e morte di Émile Ajar.

Spettristi poetici

E se lo scherzo sfugge di mano? Può ritorcersi contro l’autore. Quante volte il poeta americano Witter Bynner avrà ripensato a quella cena in cui, sfinito dalle chiacchiere dei commensali, che vantavano le virtù e l’originalità della nuova ondata modernista, domandò loro se avessero mai sentito parlare dei poeti spettristi? Ringalluzzito dalla curiosità che aveva scatenato, in combutta con l’amico Arthur Davison Ficke, anch’egli poeta, redasse addirittura un manifesto poetico della nuova corrente, che si proponeva di “vedere lo spettro nella nostra vita e catturare le varietà di luce dello spettro”: una solenne assurdità che non attirò tuttavia alcun sospetto. La pubblicazione dei primi (fantomatici, è il caso di dire) versi, volutamente orribili (“Se dovessi entrare nella sua camera / e lo toccassi all’improvviso, / svanirebbe in una sottile nebbia / o risplenderebbe in una palla di fuoco / o esploderebbe come una sfera di luce bucherellata? / È impossibile che si limiti a sbadigliare e a stropicciarsi / dicendo: Cosa c’è?“) procurò anzi allo spettrismo una fama improvvisa. E quando Bynner, che aveva pure dovuto occuparsene da critico letterario della New Republic, rivelò la contraffazione, i lettori gli scrissero di preferire le poesie scritte per gioco a quelle che aveva, più seriamente, firmato col suo nome. E qui sta il punto: un pubblico che si beve tutto. Va bene la beffa all’establishment letterario, ai tromboni delle università, ai venerati maestri e agli aspiranti tali, ai giurati dei premi, ai giornalisti-e-scrittori che pubblicano più libri di quanti ne leggano, recensendoseli a vicenda, ma quando si tratta di noi lettori, che come poveri cornuti ci lasciamo irretire dagli articoli elogiativi e dai superlativi delle fascette pubblicitarie, chi ci risarcisce dei tiri che ci gioca l’industria editoriale, quando spaccia ciofeche per capolavori, sciatteria per essenzialità, storielle rosa per coraggiose indagini sui sentimenti?

‘Fiat voluntas asinae’

Anche il vostro umile cronista, l’usurpatore di questa pagina, ha i suoi scheletri nell’armadio, per avere più volte sfangato i temi di letteratura al Liceo, attribuendo all’ignaro Contini, all’incolpevole De Sanctis, all’indifeso Sapegno immonde efferatezze sul Foscolo e sul Leopardi; ma la causa era nobile e, a parte un buon voto, non se ne ricavava altro. Il lettore, peggio se pagante di tasca propria, deve invece potersi rivalere, possibilmente colpendo i cattivi scrittori dove fa più male: nel loro narcisismo. Tempo fa proponemmo in questo spazio l’istituzione del Premio AIA (Alberi Inutilmente Abbattuti; si veda Ticino7 n. 13/2022).
Più elegante ci sembra, però, la trovata della Secolare Accademia del Parnaso, istituzione goliardico-letteraria che decenni fa animava la vita culturale della cittadina siciliana di Canicattì. Una congrega di burloni, tra i quali un prete che girava il paese su un’asina che, essendo usata come mezzo di locomozione, aveva coerentemente battezzato col nome Fiat. Ogni anno gli Arcadi (così si chiamavano i membri), indossata un’apposita toga, si recavano in pompa magna nella “sede rurale ove l’asina tiene l’alloggio” (citiamo dallo Statuto), ossia nella stalla, per celebrarvi la designazione della migliore opera letteraria tra le vincitrici dei maggiori premi nazionali. I libri venivano coperti da uguali mucchi di fave; quello su cui per primo si avventava la somara, si aggiudicava il concorso. Una sentenza inappellabile, essendo dettata da un movente arcano e imperscrutabile come la volontà della Provvidenza. Fiat voluntas asinae, dunque, e che i somari si leggano e si elogino tra di loro.

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