Scrittore sarà lei!

Jane Austen vs Mark Twain, Virginia Woolf vs James Joyce, Truman Capote vs Jack Kerouac: le vie dell’insulto sono infinite

Di Valerio Rosa

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

“Bastardi!”

“Bastardo, figlio di buona donna, bullo e pezzo di m…”

Per questo delicato scambio di vedute tra intellettuali italiani (lo scrittore Roberto Saviano e il giornalista Alessandro Sallusti), documentato dai media locali con criminale spreco di punti esclamativi, non vale la pena organizzarsi come Fantozzi quando gioca la Nazionale: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero. Si rimane infatti con un pizzico di delusione e un sottile dispiacere se chi scrive, anziché sfoderare l’uso “sregolato, malizioso, allucinato e fiammingo della fantasia” raccomandato da quel teppista di Giorgio Manganelli, attinge ai più ordinari ambiti della diatriba stradale o della disfida a carte in osteria, tra calorosi inviti a recarsi in luoghi mal frequentati e allusioni alla disinvoltura sentimentale di madri e sorelle.


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Virginia Woolf

Borsettate

Certo, uno scrittore intenzionato a dar di mazza e durlindana può giustificarsi dichiarando di essersi rifatto agli sfoghi più o meno rozzi di illustri colleghi. La Recherche, per esempio, suscitò a Evelyn Waugh una conclusione spietata: “Penso che Proust avesse qualche disordine mentale”. Jane Austen ispirava a Mark Twain slanci crudeli: “Tutte le volte che leggo Orgoglio e pregiudizio mi viene voglia di disseppellirla e colpirla sul cranio con la sua stessa tibia”. Virginia Woolf esprimeva riserve tutt’altro che timide sull’Ulisse di Joyce: “È l’opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli”.

Quanto a Kerouac, che per Truman Capote non scriveva, ma batteva a macchina, Norman Mailer lo definì “presuntuoso come una puttana arricchita, sentimentale come un lecca-lecca”. Baudelaire, che non si rifugiava in ardite perifrasi per criticare Voltaire (“È il re degli imbecilli, il principe dei superficiali, l’anti-artista, il portavoce delle portinaie”), venne così liquidato da Walter Benjamin: “Riunisce in sé la povertà dello straccivendolo, il sarcasmo del mendicante e la disperazione del parassita”.

Pare che Dylan Thomas non apprezzasse particolarmente Kipling: “Rappresenta tutto ciò che in questo mondo canceroso vorrei fosse diverso”. Brutale anche Wells su George Bernard Shaw: “Un bambino idiota che strilla in ospedale”. Sessista Flaubert all’indirizzo di George Sand: “Una muccona piena di inchiostro”. Zoologico Stevenson su Whitman: “Un enorme cane peloso capace soltanto di rovistare con foga in tutte le spiagge possibili e di abbaiare al chiaro di luna”. Categorico Durrell su Henry James: “Se mi chiedessero di scegliere fra leggerlo e ritrovarmi la testa schiacciata fra due pietre, sceglierei la seconda”. Ragionieristico Claudel dopo la morte di André Gide: “La moralità pubblica ci guadagna molto e la letteratura non ci perde tanto”.

Poco signorili Aldo Busi e Dario Bellezza quando si presero a borsettate in una trasmissione televisiva italiana, in cui si discuteva del rapporto tra sesso e letteratura (essendo il programma registrato, il conduttore con apprezzabile coerenza chiosò: “Saremo costretti a tagliare qualche c…”). In molti di questi casi, è probabile che si sia accolto il suggerimento di Schopenhauer: “Quando ci si accorge che l’avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona: questa regola è molto popolare poiché chiunque è in grado di metterla in pratica, e viene quindi impiegata spesso”.


Jack Kerouac © Tom Palumbo/Wikipedia
Jack Kerouac

Da Borges a Paperone

A uno scrittore accecato dall’ira converrebbe piuttosto fare un respiro profondo, contare fino a dieci e sforzarsi di mettere in pratica l’insegnamento di Borges, che ne L’arte di ingiuriare, ultimo capitolo della Storia dell’eternità, elogia José María Vargas Vila per aver ideato un insulto sensazionale (“Gli dèi non permisero che Santos Chocano disonorasse il patibolo, morendovi sopra. Eccolo vivo, dopo aver stancato l’infamia”), che però consegna perfidamente ai posteri come l’unico contatto del suo autore con la letteratura. Troppo sottile per questi tempi collerici e per le modalità sbrigative della comunicazione di massa, a cui anche un intellettuale è ormai tenuto a omologarsi? Ci si potrà sempre affidare ai fumetti Disney, che nelle avventure allegramente surreali dei paperi invitano a una frequentazione creativa del dizionario. A seconda delle alzate d’ingegno, Paperino viene di volta in volta additato come nefando eresiarca, prosaica e venale sanguisuga, cuore di serpente a sonagli o, con apprezzabile sensibilità storica e letteraria, Rodomonte, Maramaldo, Lucrezio Borgio, razza d’un Rosmundo. Oppure può egli stesso, scoppiando in lacrime davanti all’attonita Paperina, bollarsi come un misero peracottaro.

Chi rinfaccia a Paperone la non verdissima età può scegliere tra coevo dei trilobiti, precambriano arpagone, mefistofelico vecchiardo. E tra le dame ingioiellate di un borghesissimo circolo ricreativo non mancheranno le megere incartapecorite e le cariatidi con gli stivali. Altrimenti, dato che le vie dell’insulto sono infinite, si può anche andare a casaccio e vedere di nascosto l’effetto che fa, cercando nella sonorità delle parole un senso offensivo che il significato letterale non prevede, come fanno i malviventi della Banda Bassotti, frequentatori delle patrie galere più che delle scuole pubbliche, alle prese con gli ostici volumi di un’enciclopedia: ipocentro! tetragono! istogramma! pseudonimo! geofisico!

M’illumino d’insulto

Divertente, ma irrealistico: permalosi come sono, gli intellettuali ormai preferiscono le soluzioni espressive più sordide e convenzionali, mortalmente offesi dall’inconcepibile eventualità che non si condividano le loro opinioni. L’unica soluzione, a questo punto, è che passino alle vie di fatto, come quando Bontempelli e Ungaretti si sfidarono a duello, nell’agosto del 1926, nel giardino della villa di Luigi Pirandello. Si affrontino dunque le eccelse menti in apposite dirette televisive, a mani nude, con sciabole, pistole, alabarde, mazzafrombole, coltelli, fruste e balestre, circondati da un pubblico ululante e strombazzante, con l’immancabile verdetto di una giuria tecnica e l’esasperante corredo di filmati emozionali che ricordino, come si usa in tv, un passato difficile di traumi non superati (ero scarso in matematica, mi chiamavano naso a patata, mio cugino mi rubava le figurine dei calciatori). Ne guadagnerebbero gli sponsor, i produttori di popcorn e persino gli spettatori, che dopo avere visto gli scrittori darsele di santa ragione smetterebbero finalmente di prenderli sul serio e di arricchirli comprando i loro libri, e magari tornerebbero a leggere quel brufoloso di Joyce.

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