I figli unici e il peso dello ‘stile genitoriale’
Gli psicologi (e non solo loro) s’interrogano da sempre su questa condizione, che le contingenze hanno reso nuovamente d’attualità
Di Mariella Dal Farra
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Fra i molteplici cambiamenti che hanno interessato le famiglie nel corso degli ultimi decenni, uno dei più evidenti è la tendenza a fare meno figli. La Svizzera non fa eccezione, sebbene qui la maggioranza dei bambini abbia ancora almeno un fratello o una sorella. Secondo Eurostat, in Svizzera la percentuale di figli unici è pari al 43%, contro una media europea del 49,1% con Paesi che toccano picchi del 53,9% (Italia, Ungheria), 60,1% (Portogallo) e 71% (Malta). Così, se fino a una generazione fa essere figli unici rap-presentava ancora una rarità, ora il numero di bambine e bambini senza fratelli o sorelle è in aumento.
Fuori dell’Europa, il caso di gran lunga più eclatante è quello della Cina, la cui politica del figlio unico, adottata nel 1979, ha drasticamente trasformato la struttura della società nelle ultime tre decadi. Gli psicologi (e non solo loro) s’interrogano da sempre su questa condizione, che le contingenze hanno reso nuovamente d’attualità.
A fronte degli autorevoli studi condotti sull’argomento, partirei però da un’impressione di carattere puramente soggettivo, basata cioè sui “figli unici” che conosco di persona. Se mi soffermo a riflettere su di loro – che sono diversissimi per età, genere, personalità e storia – c’è in effetti una caratteristica che mi sembra ricorrere. Ciascuno/a secondo il proprio stile, hanno tutti/e una particolare propensione a instaurare rapporti di tipo amicale, che talvolta risultano addirittura più importanti di quelli familiari o di coppia. Nella mia esperienza, i figli unici tendono cioè ad attribuire una particolare rilevanza al fatto di avere degli amici e al condividere con loro momenti di vita significativi, sia in forma diadica che in riferimento al gruppo di appartenenza. Indipendentemente dal fatto di essere più o meno estroversi, sono sensibili alla dimensione relazionale e amano il gioco di squadra, che si tratti di suonare in una band o di organizzare un pigiama party. I figli unici che conosco non sono né leader né gregari; semplicemente, amano stare in compagnia dei propri simili.
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Dividere e condividere
Questo è ciò che osservo nell’ambito del mio poco rappresentativo campione di conoscenze, e siccome mi piace darmi ragione citerò subito un interessante studio pubblicato quest’anno da un team di ricercatori delle Università di Harvard (USA) e Hangzhou (Cina) sul comportamento di condivisione nei bambini figli unici e in quelli con fratelli e sorelle (Xiao et al., “Children with siblings differ from only children in their sharing behaviour” in Early Child Development and Care, 2022). La “condivisione” è un’attitudine pro-sociale che consiste nel “concedere l’uso, il godimento o il possesso parziale di un bene, anche nel caso in cui si configuri come mutuo utilizzo, godimento o possesso” (Merriam-Webster, 1969).
Al contempo, il termine si riferisce al processo di suddividere e/o distribuire qualcosa. I bambini iniziano a manifestare un certo interesse per l’equità della condivisione prima dei due anni, e a quattro esprimono chiaramente la propria contrarietà a fronte di un’allocazione ineguale delle risorse. Per esempio, in una ricerca condotta nel 2012, bambini di età compresa fra i sei e gli otto anni preferivano rifiutare un bene piuttosto che distribuirlo in maniera iniqua (Shaw & Olson. “Children discard a resource to avoid inequity”. Journal of Experimental Psychology, 2012).
Parallelamente, è stata evidenziata una tendenza, con l’aumentare dell’età, a favorire i membri del proprio gruppo o i famigliari a discapito degli estranei. L’attitudine a “premiare” le persone più vicine inizia a manifestarsi intorno ai 5-6 anni, quando i bambini diventano capaci di distinguere fra un parente, un amico e un estraneo (Lu & Chang, “Resource allocation to kin, friends, and strangers by 3- to 6-year-old children” in Journal of Experimental Child Psychology, 2016). Questa osservazione è stata confermata dallo studio del 2022 (Xiao et al.) nel quale bambini di età compresa fra i quattro e i sei anni dovevano decidere con chi, fra i tre comprimari di una storia (fratello, amico, estraneo), il protagonista avrebbe condiviso il dolce che aveva portato al parco-giochi: i risultati indicano una preferenza a condividere con un fratello, piuttosto che con un amico, inclinazione che aumenta in misura direttamente proporzionale al crescere dell’età. Il dato più interessante, però, è che tale attitudine si riscontra soltanto nei bambini con fratelli o sorelle, mentre i figli unici tendono a “discriminare” molto meno i rapporti di fratellanza/sorellanza da quelli di amicizia, nel senso che gli “amici” venivano favoriti tanto quanto i “fratelli” della storia (a discapito dell’estraneo).
Miti da sfatare e modelli genitoriali
Un altro dato evidenziato da questa ricerca è che i bambini con fratelli o sorelle si aspettano una reazione inequivocabilmente negativa da parte dei personaggi che non hanno ricevuto la loro “fetta di torta”, mentre i figli unici anticipano risposte meno nette. “I fratelli e le sorelle trascorrono molto tempo insieme, imparando a comprendere il punto di vista dell’altro […]. Di fatto, i fratelli e le sorelle giocano un ruolo importante nello sviluppo della capacità di cogliere lo stato d’animo altrui, specificamente le emozioni, i pensieri, le intenzioni e i beliefs […]. Coerentemente, i bambini con fratelli o sorelle sono più bravi ad anticipare lo stato d’animo negativo suscitato dalla non-condivisione di quanto lo siano, mediamente, i figli unici” (Xiao et al. 2022). Queste evidenze mostrano le due facce di una stessa medaglia: i figli unici sono i soli beneficiari dell’attenzione e delle risorse dei genitori, quindi non hanno esperienza del conflitto e della competizione intrinseci ai rapporti di fratellanza/sorellanza (Mancillas, A. “Challenging the stereotypes about only children: A review of the literature and implications for practice”. Journal of Counseling & Development, 2006). Questa peculiarità si esprime, da una parte, nella maggiore valorizzazione dei rapporti di amicizia, che svolgono una funzione “surrogata” rispetto alla mancanza di fratelli o sorelle (dei quali peraltro non hanno sperimentato la componente competitiva); dall’altra, nella minore abilità di “leggere” la mente dell’altro, verosimilmente per mancanza di esercizio.
Tuttavia, se anche i figli unici si rivelassero un poco più lenti nel cogliere lo stato d’animo dell’interlocutore, ciò non significa che siano meno capaci di relazionarsi: un pregiudizio che da sempre li accompagna. “I bambini cresciuti senza fratelli o sorelle sono stati descritti come auto-centrati, poco amabili, egoisti, solitari e disadattati (Thompson, 1974), e sembra che Stanley Hall [eminente psicologo e primo presidente dell’APA, American Psychological Association, 1846-1924] abbia addirittura affermato che essere figli unici è un male in sé […]” (Riggio, H. R. “Personality and social skill differences between adults with and without siblings”. The Journal of Psychology, 1999). In realtà, le ricerche più recenti non danno evidenza di una maggiore competenza sociale nelle persone con fratelli o sorelle rispetto ai figli unici. Un interessante studio sull’argomento è stato condotto, sempre quest’anno, su un campione di bambini cinesi in età prescolare (Lin, X. et al. “Parenting styles and social competence in Chinese preschoolers: A moderated mediation model of singleton and self-regulation”. Early Education and Development, 2022). La ricerca verteva sulla competenza sociale, intesa come la capacità di risolvere i conflitti e mettersi d’accordo, temperare le proprie reazioni e dare inizio a un gioco. I risultati indicano che ciò che fa la differenza non è l’essere figli unici (o meno) bensì lo stile genitoriale, convenzionalmente categorizzato in tre tipologie: autorevole (genitori che si aspettano tanto ma sono anche molto disponibili); autoritario (genitori che chiedono molto ma “rispondono” poco); permissivo (genitori che, al contrario, chiedono poco e rispondono molto).
Orbene, lo stile genitoriale autorevole risulta associato a un migliore sviluppo delle competenze sociali del bambino, anche se non ha fratelli o sorelle, e questo perché tende a promuovere una migliore capacità di auto-regolazione. Al contempo, sempre in questo studio viene evidenziato come lo stile genitoriale permissivo determini una carenza di auto-regolazione nei figli unici, ma non nei bambini con fratelli o sorelle. Ciò avviene perché, come indicato anche dalla precedente ricerca, l’interazione tra fratelli e sorelle costituisce una sorta di palestra naturale per imparare a stare insieme co-regolandosi reciprocamente, e questo fattore è così determinante da ovviare agli inconvenienti comportati dall’avere genitori eccessivamente indulgenti e protettivi.
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L’effetto del pregiudizio
La pregiudiziale nei confronti dei figli unici ha origini antiche: in ambito psicologico, risale a uno studio del 1896 condotto da E.W. Bohannon, ricercatore della Clark University, su un campione di mille bambini, quarantasei dei quali senza fratelli o sorelle. Bohannon affermò che i figli unici “hanno amici immaginari, non frequentano regolarmente la scuola, non vanno d’accordo con gli altri bambini, sono viziati da genitori troppo indulgenti e, nella maggior parte dei casi, non godono di buona salute”. Queste osservazioni non tenevano però conto del fatto che molti di loro abitavano in fattorie isolate e lavoravano nei campi, senza la possibilità di interagire con i propri coetanei, a differenza di quanto avveniva per i bambini con fratelli o sorelle.
Le più recenti revisioni di questi studi non sembrano avere scalfito lo stereotipo del “figlio unico”, la cui “sindrome” (così definita in un articolo del New York Times del 1968 a firma di A.A. Messer) è diventata nel frattempo proverbiale. “Quando ero bambina”, scrive Chiara Dello Joio (“Why are people weird about only children?” in The Atlantic, 1.11.22), “il fatto che non avessi fratelli o sorelle era spesso fonte di sgomento e preoccupazione. La gente mi chiedeva: ‘Non ti senti sola? Scommetto che vorresti avere qualcuno con cui giocare’. A mia madre invece veniva domandato quando ‘mi avrebbe dato’ un fratellino o una sorellina. Tuttavia, mano a mano che crescevo, la compassione è stata soppiantata dal sospetto. ‘Sei una tipica figlia unica’ è diventato un mantra ricorrente […]”. Messa così, viene da chiedersi se i figli unici siano soggetti a una forma di minority stress – ovvero, lo stress comportato dall’appartenere a una minoranza (per esempio, etnica, religiosa, inerente all’orientamento sessuale, politica ecc.) che, per il solo fatto di esserlo, viene stigmatizzata – il che potrebbe dare conto, quello sì, di eventuali peculiarità caratteriali.
Il ‘caso’ elvetico
Considerando le percentuali di figli unici nei diversi Paesi europei, la Svizzera risulta essere in controtendenza sia per la minore incidenza (43%) – simile sotto questo profilo a Finlandia (43,5%), Svezia (42,6%), Norvegia (42,4%), Paesi Bassi (42,2%) e Danimarca (42,5%) – che per l’andamento decrescente nel corso degli ultimi dieci anni: siamo infatti passati dal 46% del 2012 al 43% del 2021.
Fonte: https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/ilc_lvph05/default/table?lang=en)