La Bocciofila dal Crot. Un racconto di Giorgio Genetelli

“Non accettava la valutazione a occhio e metteva in atto una persistente strategia psicologica per innervosire l’avversario e poi sbeffeggiarlo se la tattica riusciva…”

Di Giorgio Genetelli

Il locale era stipato per la finale dei mondiali. Campeggiava lo schermo gigante, il generatore a balla copriva il sound ma non le urla di dolore al momento dei rigori. Prima di chiudere per sempre questo preambolo, ci tengo a dire che Zidane ha fatto bene a mollare una testata a Materazzi, almeno quello. Occorreva comunque cominciare a pensare ad altro per cancellare la disfatta, ma cosa?

C’era un campo di bocce che giaceva abbandonato in fondo al giardino.
Il Zine, che prima di allora io non conoscevo, s’era presentato un giorno con l’entusiasmo adolescente dei suoi settant’anni. – Te el gerenn? Ag guà met a post el cam di bocc.
Lo disse con la ferma logica dei confidenti secolari.
– Avevo in mente di farlo, c’è il mio amico Gastone che si è offerto di darmi una mano – risposi, poco convinto.
Il Zine, incassata quella tiepida adesione, poi non ne parlò più per tre settimane.
– Allora, quando cominciamo col campo? – gli chiesi un giorno con cautela, pensando che magari s’era scordato o gliene fosse passata la voglia.
– Te dicc che t’el fa col to soci da Ascona…
Era offesissimo, ma ingannato dalla sua stessa durezza d’orecchio.
– Il mio socio Gastone, non il mio socio d’Ascona!
– Ah bon.


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Rasserenato, si mise all’opera. Portò carrettate di quella sabbia finissima che balza fuori dal granito tagliato in cava. Fissella, staggia, livello, cazzuola, secchi, badili diventarono prioritari, e che la cucina aspettasse e con essa anche i viandanti che si fermavano a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Affidai il Crot alla Valeria, la cameriera buddista, che con la sua pace servì tutti per quasi due settimane, tollerando noi bambini che giocavamo alla sabbia in fondo al giardino.
L’amico Gastone si presentò a lavori finiti, giustificando l’assenza con i soliti motivi familiari e di trasferta. Poi però divenne assiduo, sorbendosi sessanta chilometri all’andata e sessanta al ritorno. Per giocare certo, ma anche per la Valeria.
L’amico Gastone stette al grotto a dormire più volte di quanto fosse necessario a causa dell’alcol, ma credo che non sia andato oltre il due di picche, però può essere di no. Vero che la Valeria aveva un moroso guru che le aveva lavato via la debolezza della carne, non solo quella nel piatto, però pareva contenta quando il Gastone stazionava al bar afflitto dal gomito del bancone, nota patologia di noi perditempo.
Il campo fu varato in una splendida sera di luglio e per l’occasione il Frediano, con l’autorevolezza da responsabile della pagina regionale delle bocce, nonché da presidente del Dogana, fece apparire un set di bocce quasi nuove, infilate in una borsa sportiva un po’ demodée con la scritta Bocce Club Verbania.
– I doprava pü – spiegò con una certa faccia di circostanza.


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Arrivarono tutti gli abitanti del paese, più alcuni tedeschi occasionali e ingolfati di birrette. Il battesimo funzionò benissimo, anche se qualche anziano campione cristonava perché in certi posti del campo le bocce non si fermavano, ruotavano senza ritegno, saltellavano su sassolini invisibili. Un profluvio di scuse accompagnava ogni cappellata, ma fu una goduria fino alle tre del mattino.
La cosa andò avanti in modo trionfale per il resto dell’estate e metà dell’autunno. Il Zine fu glorificato da sperticate lodi per lo splendido lavoro. Ogni giorno arrivava a bagnare e lisciare, togliere foglie e provare traiettorie. Solo che, fumantino com’era, si adombrava ai suoi cali di forma e, non potendo prendersela con il campo che lui stesso aveva curato, diventava intrattabile e l’aspetto ricreativo mutava in competizione dura e pura. Esigeva l’arbitro e imponeva di misurare punti che lo vedevano perdente di mezzo metro e più. Non accettava la valutazione a occhio e metteva in atto una persistente strategia psicologica per innervosire l’avversario e poi sbeffeggiarlo se la tattica riusciva.
Quando la disputa si faceva accesa e qualcuno gli dava del rompiballe, annunciava offesissimo: – Basta, a vegni più!
E pigliava le sue bocce e spariva imbufalito. Accadeva almeno una volta a settimana.
Poi, nei giorni seguenti il ritiro, tornava al campo come spettatore, fingendo disinteresse ma fremendo dalla voglia di giocare. Alla millesima invocazione, cominciava a titubare, ma sempre sostenuto.
– Dai, gioca no!
– No! O dicc ch’a sgiughi più.


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Ma poi tornava a giocare, dapprima sportivo e rilassato, persino tollerante e magnanimo, come se ci concedesse la sua raggiunta aura di sportività.
Ma dopo tre partite era già alle misurazioni inutili e alle azioni di disturbo.
– Sbajada! – gridava, mentre il bocciatore di turno era già in rincorsa.
Se l’avversario sbagliava davvero e protestava per la scorrettezza, lui faceva l’indiano dicendo all’altro (spesse volte ero io) che se non era capace poteva anche stare a casa. Ma se il piano non funzionava e il pac! della boccia avversaria sanciva il colpo riuscito, rilanciava.
– Gnomà cuu!
Il Gastone ancora flirtava in bianco quando la stagione finì e si chiuse il Crot con una cena da tregenda e seguente minitorneo, che non fu conteggiato perché i partecipanti erano alterati e l’umidità falsava i passi sbilenchi.
Il Zine fece un discorso appassionato sull’anno a venire, con un programma di massima di tornei amatoriali e agonistici, di premi, di musica e migliorie da fare al terreno da gioco. Tutti applaudirono, bevvero ancora e si dissero pronti a collaborare, immaginando perfino la costituzione della Bocciofila dal Crot.
Solo che l’anno dopo il Crot non riaprì e il campo tornò a essere una selva. Ogni traccia è scomparsa.
Ieri abbiamo fatto una cantata tra soci e il Zine si è commosso quando abbiamo intonato Il Pescatore, che vorrebbe per il suo funerale.


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