Quattro tiri con Remo Semmler (tutti a canestro)
È stato uno dei fondatori del Gruppo Paraplegici Ticino ed è al timone dei cestisti dei Ticino Bulls. Ha la capa tosta e ama le sfide, leggere per credere
Di Natascia Bandecchi
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Nato nel 1963, gli garba vivere la vita in modo intenso, è curioso per natura e gli piace assai stare con persone con cui confrontarsi e discutere. Il basket fa parte del suo DNA da quando era adolescente. I terreni sconnessi e le strade poco battute non gli fanno paura, soprattutto quando è a bordo della sua mountain bike con tre ruote. Ci sono poche cose che lo indispongono, fra tutte primeggia l’arroganza.
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Avviso ai lettori: questa intervista non racchiude lamentele, pietismi, lacrime alla Barbara D’Urso, stereotipi sulle diversità o accenti su quello che non si può fare quando si sta su una carrozzina. Queste righe sono intrise di grinta, semplicità, vita vera e di come trovare gli strumenti per andare oltre apparenti limiti che spesso sono interposti tra chi si è, e chi gli altri credono si dovrebbe essere. Remo è il perfetto interlocutore per dimostrare che la sua parola totem è: indipendenza. “Sono cosciente di aver bisogno di altri per fare determinate cose però mi piace farlo in maniera serena. È importante riconoscere i propri limiti e far pace con essi, così da non precludersi di sperimentare esperienze che possano far crescere e che donino emozioni”.
Chiedere aiuto
“Solo da indipendente si esiste, si resiste“, così canta Niccolò Fabi in un suo brano. Non posso però non riflettere su quanto per Remo sia fondamentale l’indipendenza e mi chiedo se per lui sia mai stato un ostacolo essere paraplegico e dover chiedere spesso aiuto a qualcuno. “Come mi sento nel mio intimo, non riguarda la disabilità. Tutti noi, indistintamente, prima o poi abbiamo bisogno di qualcuno: che sia la classica mano che ti aiuta in atti pratici oppure che si tratti di vicinanza affettiva per superare delle difficoltà. Ci vuole amor proprio per avere il coraggio di chiedere aiuto e mostrarsi vulnerabile e, per nulla scontato, accettare di ricevere quella mano tesa”.
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Boato
Remo gioca a pallacanestro da 44 anni e quando ne parla ha una scintilla negli occhi che è difficile non notare. “Ho vissuto emozioni meravigliose con il basket: parecchi anni fa, dopo la metà degli anni Ottanta – con la nazionale di basket in sedia a rotelle – ho giocato al Palasport di San Siro a Milano davanti a 12mila spettatori”. Remo mi fa la telecronaca di quel match e ricorda il boato del pubblico seduto sugli spalti ogni volta che qualcuno centrava il canestro: “Grazie a quella partita ho imparato a gestire l’ansia da prestazione con il pubblico. Calibrare al meglio i sentimenti che emergono quando si è criticati oppure osannati non è una passeggiata; imparare cioè a prendere le distanze, non solo dal giudizio esterno ma anche dal proprio giudice interiore fa parte di un percorso che ho macinato grazie anche alla militanza in nazionale”. C’è un po’ di malinconia per quegli anni, ma non muta la curiosità che Remo ripone nel mettersi in discussione e nel conoscere angoli di sé stesso pronti a essere esplorati.
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Diverso da chi
Chissà poi perché, quando si incontra una persona che non è completamente abile, molti si imbarazzano oppure sfoggiano spesso le solite domande, con quel velo di compatimento: ma com’è successo? Da quando stai così? Anticipando la risposta del tipo: “Beh, immagino sia stato terribile, poverino/a”. “Quello che crea distanza, soprattutto quando si parla di diversità, è la non conoscenza. Non dico nulla di nuovo e penso che il non sintonizzarsi sulle frequenze di chi si ha davanti crei immediatamente un muro. Credo davvero basti poco per essere empatico senza scadere in ‘uscite’ un po’ infelici”.
L’anima vola
Remo è paraplegico da quando aveva 3 anni, un incidente stradale con i genitori gli ha portato via per sempre l’uso delle gambe. Qualcuno potrebbe dirgli che la vita è stata ingiusta con lui e – non avevo dubbi – la sua risposta è questa: “Io direi di guardare prima a casa propria. Non si tratta di giusto o sbagliato. Certo, ogni tanto fantastico su quello che potrei fare con due gambe funzionanti ma non mi sono mai pianto addosso. Ho raggiunto e superato molti traguardi nella mia vita e ne sono semplicemente felice e fiero. La mia anima è libera”. E io aggiungerei che non ha bisogno di camminare o correre perché sa volare in alto.
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