Disavventure latine: Ecuador. Olón, felicità è una chocobanana

Il nome della cittadina sulla costa pacifica significa “grande onda” ed è una placida località balneare che da poco ha scoperto di esserlo…

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Mi avevano detto che non c’era niente da vedere, che era brutto, sporco e cattivo. Che si mangiava male e beveva peggio. Che mi sarebbe costato troppo e mi avrebbe dato indietro poco. Che a un certo punto mi sarei chiesto – arrabbiato con me stesso – perché non il Brasile, le Canarie, l’Appenzello Interno. O il Molise. E che se volevo rischiare la pelle potevo almeno evitarmi un volo di dodici ore, visto che ci si può far ammazzare molto più vicino, se proprio ci tieni. Mi avevano detto che non si poteva uscire la sera, e forse nemmeno di giorno, che non si poteva prendere un autobus né entrare allo stadio. Così sono andato a vedere davvero com’è, l’Ecuador: senza ignorare i pericoli (che ci sono, eccome), ma abbracciando – ricambiato – tutto il resto. Ne è valsa la pena. Ve lo racconto qui.

La felicità è una chocobanana. Comprata di prima mattina dentro un negozio che non è un negozio, ma una casa. E venduta da un bambino con un sorriso largo così che non sa nemmeno quanti soldi devi dargli e – fidandosi – lo chiede a te, che sai leggere quel cartello scarabocchiato a mano da un adulto accanto alla porta d’ingresso.

La chocobanana non è altro che una banana infilata in uno stecco di legno, ricoperta di cioccolata e poi messa per un po’ nel freezer. Niente di più e niente di meno. È la madeleine da spiaggia degli ecuadoriani.

Un affare complicato

La felicità, invece, è un affare molto più complicato. Fin da bambino ti senti dire che è fatta di piccole cose. Ma mica detto. Non sempre almeno. Col tempo ho imparato che la felicità, quella vera, è una sorpresa, un incidente, a suo modo, e non è mai davvero quel che ti aspetti. So – ad esempio – che se un momento si allinea perfettamente con le tue aspettative subentra l’appagamento, che ti può rendere soddisfatto, contento o perfino euforico. Bellissimo. Ma la felicità è un’altra cosa. La felicità contiene sempre uno scarto, un effetto sorpresa.

Da buon inquieto – e quindi quasi mai sereno –, ma un inquieto di quelli fortunati – e quindi spesso felice – ho imparato un altro paio di cose. Che la serenità è una splendida compagna di viaggio per chi riesce a portarsela appresso, come un bagaglio: utile, per carità, ma anche un bell’ingombro. Io un po’ la invidio e un po’ la temo, un po’ mi attira e un po’ – a dirla tutta – mi annoia. La serenità va nutrita, sorvegliata, accudita. La felicità invece è un’altra faccenda: anche più comoda per certi versi, perché non devi conviverci, quella arriva e se ne va quando le pare. Sta a te accorgertene. “Quando siete felici, fateci caso”, diceva uno scrittore gigantesco e sottovalutato come Kurt Vonnegut. Sembra un consiglio stupido: non lo è. Sembra un’ovvietà “farci caso”: invece è la parte più difficile. L’unica cosa che puoi fare è allenarti a percepire la felicità e poi lasciarla fare, lasciarla scorrere, attraversarti. Perché, se la serenità va trattata con cura, la felicità non va trattata affatto. Qualsiasi cosa facciate se ne andrà comunque, e in fretta. Il massimo che potete fare è riconoscerla. Quella mattina, in una strada polverosa di Olón, l’ho riconosciuta.


© R.S.
sulla spiaggia

Olón è una località balneare che ha scoperto da poco di esserlo. Prima era un villaggio di pescatori e prima ancora non era niente. Nel senso che gli umani, se ci mettevano piede, era per passarci e non per fermarsi. Ora si sono fermati in tremila: non ce n’è uno che vada di fretta. E sciabattano tutti come ho sciabattato io in quei tre giorni, in particolare la mattina della chocobanana. C’era abbastanza sole e caldo da voler uscire presto dalla camera, ma non abbastanza da voler tuffarsi in mare. E così ho gironzolato e visto questo posto sonnolento risvegliarsi, ma non troppo, ho visto le moto parcheggiate con sopra il volto di Che Guevara o la scritta Jesus, il giovane trasportatore di bombole a gas e il vecchio venditore di choclo (il mais locale, talmente arancione che sembra colorato chicco per chicco), due ragazzini con una divisa da calcio nera – uno con il 4 e l’altro con lo 0 sulla schiena – e una vecchissima signora che provava a fermare gli operai che avevano appena steso il cemento di un marciapiede davanti al cancelletto di casa sua, che non si poteva più aprire.


© R.S.
Il venditore di choclo

A un certo punto mi sono ritrovato all’angolo di una strada con la voce di Grignani che cantava ‘La mia storia tra le dita’ in spagnolo. E non perché mi piaccia Grignani (anzi), ma ho pensato, mentre vagavo, a una frase che diceva lo zio di Kurt Vonnegut, Alex, e che è la madre di quell’altra sul fare caso alla felicità: “If this isn’t nice, what it is?” (Cosa c’è di più bello di questo?). Tra gli esempi di bellezza impareggiabile dello zio di Vonnegut c’era una limonata fresca in una giornata calda, che poi è una chocobanana a stelle e strisce.

La lentezza insita in Olón, quel mare fatto di vecchi ombrelloni multicolori tutti uguali, venditori ambulanti di ostriche e ceviche e turisti che sembrano avere tutto il tempo del mondo, mi porta a dilatare come non mai la sensazione di felicità, che mi pervade e mi attraversa senza la solita fretta.


© R.S.
Reyes

Continuare a sciabattare

Spostarmi per mezza giornata nella vicina Montañita, la sorella festaiola di Olón, mi darà ancora più la misura di quel che ho provato. A Montañita – che al mattino è deserta perché la notte va avanti a lungo, mentre a Olón la notte si dorme – ci sono decine e decine di ristoranti e coctelerie, procacciatori di piccoli affari e distrazioni. Ci ho mangiato, benissimo, un riso con degli strani frutti di mare che non avevo mai visto, seduto in uno di questi posti che poi sono baracche con una cucina dentro e dei tavolacci fuori. Pochi giorni dopo, in uno di questi locali c’è stata una vendetta tra gruppi criminali: sei morti e sei feriti, compresa gente seduta al tavolo, che non c’entrava nulla. Gente la cui unica colpa era aver scelto il ristorante sbagliato nel giorno sbagliato.


© R.S.

Quando ci sono stato io a Montañita mi sono sentito semplicemente fuori posto, non tanto per età, ma per indole. L’idea di passarci almeno una sera, con l’avanzare delle ore, non mi ha attirato più così tanto: meglio tornare a Olón, sciabattare come loro, mangiare così così in un posto così così, che però mi somiglia. Quella sera ripasso nella casa-negozio: c’è il bambino, che però sta giocando con degli amici e nemmeno mi nota. E c’è il padre, che mi propone una chocobanana. So già che è buona, l’ho mangiata al mattino, ma so anche che non mi renderà più così felice. Rifiuto e scambio due chiacchiere con l’uomo. Il bambino riconosce la mia voce, ferma il gioco, si gira e scatta verso il frigorifero. Non posso più dire no.

La chocobanana – ho imparato – va addentata subito e finita in fretta, sennò si scioglie la cioccolata e ti sporchi tutto, sennò si ammorbidisce la banana e ti casca dallo stecco. La felicità, in fin dei conti, è una chocobanana.


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Chocobanana

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