Disavventure Latine. Messico: San Luis Potosí

Io a San Luis Potosí non ci volevo proprio andare. Ho provato in tutti i modi a evitarla, aggirarla, superarla senza nemmeno guardarla… Tutto inutile

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Avevo comprato il biglietto aereo per il Messico nel febbraio di due anni fa. La partenza era fissata il 17 marzo 2020 da Genova. Sono atterrato all’alba del 6 aprile di quest’anno, una pandemia e quindici ore dopo essere decollato da Zurigo. Nel frattempo, insieme all’aeroporto di partenza, sono cambiati sia il luogo in cui vivo che il mondo. E, a suo modo, pure il Messico. Non so come fosse prima, ma ho un mese di tempo per illudermi di capire com’è ora. (Settima puntata)

Viaggiando in Messico coi mezzi pubblici locali, a un certo punto ho capito di non avere scelta. Lasciato il deserto, la mia destinazione avrebbe dovuto essere San Miguel de Allende, la città-cartolina del Messico, infilata a forza nelle brochure tra un mare azzurrissimo, una tequila e una piramide. San Luis Potosí nelle brochure non c’è, e anche la guida non sembra entusiasmarsi più di tanto: in sintesi c’è scritto che è una città coloniale come tante, decadente come poche. Quando ho capito che avrei dovuto in ogni caso passarci una notte, ho deciso di fermarmi un giorno e una notte in più, perché quando il destino o – meno romanticamente – gli orari degli autobus ti suggeriscono qualcosa, meglio dar loro retta.


© R. S.

O la borsa o la vita?

L’inizio non è incoraggiante: arrivo in hotel, poso la valigia e quando esco è già quasi buio. La ragazza alla reception si raccomanda: “Attento che è pericoloso, vada a mangiare qui vicino e poi torni subito in hotel”. La sua aria ansiosa mi fa chiedere conferma di questo Bronx messicano al portiere, che praticamente mi ride in faccia: “Pericoloso? Qui? Puoi andare in giro fino alle 3 di notte col portafoglio in mano. Io sono di Irapuato. Lì sì che c’è da avere paura”. Scelgo di dare retta, un po’ più retta, a lui senza tornare alle 3 di notte, senza porgere il portafoglio agli sconosciuti e senza dimenticare cosa ha detto lei: finisco al Café Corta’o, istituzione locale senza pretese dove si mangia bene con pochi spiccioli e ancora meno fronzoli. Quando pago il conto ho già deciso che tornerò, come se sapessi di avere un appuntamento con qualcosa o qualcuno. La mattina dopo scopro una città piacevole, coloniale e decadente il giusto: la prima, da quando sono in Messico, in cui ci sono strane statue che sembrano inneggiare al Ku Klux Klan (e sono invece gli incappucciati delle trenta confraternite della Processione del Silenzio, la via crucis muta che si tiene ogni venerdì di Pasqua nelle strade del paese), la prima in cui le prostitute affollano i marciapiedi del centro, e anche la prima in cui leggo una targa curiosa, una specie di lamentela di un’altra targa. C’è scritto: “Qui per 50 anni, finché non se la sono rubata, c’è stata la targa del dottor Mariano Vildosola Davalos”. Nessuna firma, e una data: marzo 2015.


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Di forza e di carezze

San Luis Potosí non è invece la prima città a ospitare un fenomeno curioso, che qui però viene elevato a forma d’arte. Le banche non sono banche come ce le immaginiamo noi, ma negozi di elettrodomestici e scooter, con all’ingresso il nome della banca e in vetrina lavastoviglie, robot da cucina e lavatrici: in fondo, se uno controlla bene, c’è anche il bancario, che si porta avanti col lavoro facendo prestiti direttamente sui prodotti in loco. E penso che mi piacerebbe un giorno uscire da una banca in sella a uno scooter o con un aspirapolvere sotto braccio. Camminare mi porta a vedere una scritta, “Ternura radical” (Tenerezza radicale), che mi rimarrà impressa e che riesce a spiegare il Messico più di tante altre parole. Solo più tardi scopro che è il motto di un collettivo artistico nato nel 2018 che gioca con gli ossimori e propone di “usare la forza come una carezza”. A poche decine di metri c’è uno di quei negozi che lotta col caos, in cui non si capisce cosa sia nuovo o usato, cosa sia in vendita e cosa no. A gestirlo c’è tal Ricardo Cesani, un complottista chiacchierone di origini venete che parte da una maglietta del Napoli di Maradona per arrivare a una personalissima lettura della guerra in Ucraina in cui manca solo lo sbarco dei marziani. Il resto della giornata lo passo a girovagare e a guardare cosa vendono le banche finché non mi viene fame e torno al Café Corta’o.


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“Niente mogli, niente storie tristi”

Al tavolo accanto al mio ci sono cinque signori, tutti avanti con gli anni: scherzano tra loro con quella confidenza che solo amicizie di vecchia data possono permettersi. Ridono tanto, ma mai sguaiatamente. Quando arriva il sesto, accompagnato dalla moglie, che subito se ne va, tendo ancor di più l’orecchio, poi non ce la faccio più e chiedo, esordendo così: “Scusate il disturbo. Non so chi siete, ma quando arriverò alla vostra età mi piacerebbe far parte di una tavolata così, con degli amici così”. Uno ribatte scherzosamente che gli sto dando del vecchio, un altro sembra quasi scocciato, altri due invece mi invitano a girare la sedia verso il loro tavolo. Un altro mi fa notare che sul menù c’è un caffè pasticciato che porta il suo nome, perché l’ha inventato lui. Mi raccontano che hanno 72 anni, che sono stati compagni di classe delle elementari, che non si sono mai persi davvero e che hanno fatto tutti carriera, a vari livelli, nel pubblico, e che da quando sono in pensione – cascasse il mondo – hanno un appuntamento fisso, alle sette di sera, ogni mercoledì, al Café Corta’o. Due regole: “Niente mogli e niente storie tristi”. Danno i voti al mio itinerario messicano e alla fine mi suggeriscono anche una mezcaleria dove provare il mezcal locale, “diverso da quello di Oaxaca, il più famoso, ma non il più buono”, aggiungono con un tocco di campanilismo. Saremo gli ultimi ad andarcene, ma solo perché il bar deve chiudere e non possiamo restare oltre. Ci salutiamo in strada, prolungando un altro po’ le chiacchiere, e anche se ho solo voglia di tornare in hotel mi trascino verso la mezcaleria per non lasciare cadere un buon consiglio. Brindo da solo, senza sentirmi nemmeno troppo stupido, a quei compagni di classe cresciuti e agli orari degli autobus.


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