Quando ‘l’arte’ della bestemmia la si coltiva sin da piccoli

“(…) imprecare è un piacere per tutti i poveri diavoli – c’è una piccola ebbrezza di potenza” (da ‘Il crepuscolo degli idoli’, F. Nietzsche, 1888)

Di Red.Ticino7

Pubblichiamo l’editoriale apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Bestemmiare è legato a doppio filo con la blasfemia. Insomma, chi offende “la divinità o le cose sacre con parole di odio e di spregio spesso triviali” (Treccani) compie un atto dissacratorio. Forma diretta e violenta di manifestare rabbia e contrarietà, è un atteggiamento tendenzialmente immaturo, tipicamente adolescenziale, provocatorio rispetto a un sistema sociale che si basa anche su valori morali, etici e di fede. E così quando le cose non vanno per il verso giusto, Buddha, Dio, Confucio o Maometto (figure di potere, autoritarie e fonte di dogmi) paiono comodi capri espiatori. Al di là degli aspetti sanzionatori – in molti Paesi chi bestemmia in pubblico paga una multa, in altri rischia la morte, in altri ancora si può dire ciò che si vuole –, la questione non è tanto legata all’intelligenza, all’educazione o alle buone maniere, ma piuttosto al rispetto e alla sensibilità di chi ci sta attorno: e se mentre uno bestemmia il suo vicino di banco o di scrivania si sentisse colpito da ciò che viene proferito contro una divinità a lui cara? Come vi sentireste, voi, se uno sconosciuto se la prendesse senza motivo contro vostro padre, vostra madre o i vostri fratelli? E se inveisse contro i vostri valori e le vostre sensibilità? Sino a non molti decenni fa il bestemmiatore seriale (a casa, in pubblico) solitamente proveniva da situazioni culturali e familiari poco fortunate: oggi – e basta viaggiare su un mezzo pubblico per rendersene conto – bestemmiano l’avvocato e l’operaio edile, la studentessa e l’anziano distinto, la postina e l’allenatore. Anche alle scuole elementari si bestemmia, e ci sono bambini che lo fanno pure all’asilo, riproponendo (per imitazione), modalità comunicative che sentono nella ristretta cerchia familiare. Sì, sempre lì si ritorna.

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