La scuola dei docenti. Insegnare per continuare ad apprendere

Con l’apertura degli istituti scolastici, vi proponiamo una riflessione sul ruolo e la formazione degli insegnanti, in una società che corre veloce…

Di Palma Grano / a cura Red./T7

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Non è una novità che la scuola di oggi abbia, tra i suoi pilastri, lo sviluppo delle allieve e degli allievi nella loro globalità. Perché in una società in continua trasformazione sono richieste non solo conoscenze,
ma soprattutto abilità e competenze. Oggi la necessità di adattarsi è rapida e costante: bisogna essere flessibili, anticipare gli altri, avere un pensiero critico ed essere pronti al lavoro di squadra. Elementi diventati centrali nel mondo del lavoro, ma anche nella vita quotidiana e nel relazionarsi con gli altri. Scriveva Paulo Coelho: “Il vero maestro non è quello che insegna un cammino ideale, ma colui che mostra all’allievo le innumerevoli vie che lo porteranno alla strada attraverso la quale incontrerà il proprio destino”. Una considerazione senza tempo, che calza a pennello in questi decenni che sembrano segnati dalla mancanza di certezze.

Affrontare una vera missione

L’imminente riapertura delle scuole invita a mettere non solo le ragazze e i ragazzi, ma anche i docenti al centro della nostra attenzione. Il quesito è quantomai rilevante: quale ruolo svolgono gli insegnanti nell’aiutare gli allievi e dare loro gli strumenti per affrontare i cambiamenti della società? Un compito, il loro, per nulla scontato, che porta in modo quasi naturale a interrogarci sulle loro necessità formative.
Il ruolo dell’insegnante dovrebbe essere quello di guardare oltre il “qui e ora”, dimostrando coi fatti la capacità di trascendere tempo e spazio. Una missione complessa a cui potrebbero far fronte solo delle wonder woman e dei superman; non è un caso se spesso si richiede agli insegnanti di affrontare la loro professione come una sorta di “missione”.
Essere un educatore audace significa concentrare lo sguardo e l’azione sul futuro, senza dimenticare che quest’ultimo è per molti aspetti solo nelle sue mani. Purtroppo, sebbene alcuni docenti abbiano dei veri e propri “superpoteri”, non essendo personaggi della fantasia ma persone come tutti noi, un’altra domanda pare pertinente: ma quali formazioni e conoscenze necessitano per svolgere al meglio questo ruolo educativo, spesso secondo solo a quello dei genitori?
Chi osa insegnare non deve mai cessare di imparare“, sosteneva John Cotton Dana (1856-1929), illuminato bibliotecario e noto promotore culturale statunitense: non v’è dubbio che avesse visto lontano. Ma se lo sviluppo professionale dei docenti è essenziale, quali altri strumenti consentono di valorizzare questo ruolo fondamentale per la società? È opportuno porsi questa domanda, perché solo ponendo al centro le necessità degli insegnanti possiamo riconoscere anche la centralità sociale di chi, nelle strutture scolastiche, si occupa di seguire i nostri figli. Come canta Francesco Gabbani, si potrebbe trattare di “risposte facili, dilemmi inutili”, ma da queste risposte dipende il futuro dei giovani.
Per addentrarci “nella scuola dei docenti” e per capirne le necessità, riprendiamo alcune idee di specialisti del settore, insieme alle voci di docenti delle scuole medie ticinesi. Per proteggere l’anonimato di questi ultimi, li chiameremo Angela, Luigi, Marco e Martina (i veri nomi sono noti alla Redazione).


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Come imparano i docenti

All’interno del progetto “Como aprenden los docentes” (“Come imparano i docenti”, 2020) le ricercatrici e docenti spagnole Juana Maria Sancho-Gil e Maria Domingo-Coscollola si sono interrogate proprio su come
apprendono gli insegnanti. Può sembrare banale chiederselo, ma un fattore fondamentale dello sviluppo professionale di questa categoria è proprio vincolato al “come s’impara”. Nello studio e in altre pubblicazioni, le ricercatrici hanno evidenziato la necessità di mettere in discussione gli approcci di apprendimento ristretti ed eccessivamente cognitivi, che spesso trascurano le dimensioni corporee, culturali, sociali e affettive. Infatti, se esigiamo che i docenti lavorino per competenze e non esclusivamente per contenuti, non possiamo pretendere che lo facciano se l’insegnamento è meramente centrato sugli aspetti cognitivi e di restituzione del sapere. Inoltre, il loro approccio di sviluppo professionale dell’insegnante considera i docenti persone che, proprio come tutti noi, hanno diversi ambienti di apprendimento, differenti dalla scuola e dagli spazi di sviluppo professionale. Se ci pensiamo bene, sarebbe contraddittorio formare docenti senza insegnare attraverso le stesse pedagogie che si vogliono praticare con gli studenti, come le competenze e le pedagogie attive. Ciononostante, è innegabile che la scuola dove gli insegnanti lavorano sia il luogo ideale, poiché offre la possibilità di un apprendimento esperienziale (si veda David A. Kolb, Experiential Learning: Experience as the Source of Learning and Development, Prentice Hall, 1984).
Angela, docente di Scienze alimentari, ci confida la sua premura nel cercare formazioni che la portino a poter “insegnare all’umanità” , ma formazioni che preferisce siano fatte in un contesto scolastico. Afferma inoltre che “le formazioni devono però essere volute dai docenti di uno stesso istituto”. Ma è anche importante “essere a contatto con posizioni ed esperienze diverse dalla propria scuola, poiché questo aiuta nella crescita professionale”.


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Anche Marco, docente di Matematica, sottolinea la ricchezza dei corsi interni. Apprezza formazioni che insistono sull’aspetto relazionale, com’è il caso dei colloqui e i rapporti con le famiglie. E aggiunge: “C’è una necessità di trovarsi tra docenti di discipline diverse per affrontare discorsi interdisciplinari e transdisciplinari. Per esempio, in prima e seconda media abbiamo delle ore di laboratorio. In questo spazio, avendo un gruppo ridotto, si riesce non solo ad approfondire ma si possono anche affrontare dei discorsi interdisciplinari coi colleghi d’italiano. Trovo quindi interessanti delle formazioni continue che aiutino a creare dei percorsi didattici che affrontano i temi della vita, meglio se strutturati come dei veri e proprio progetti”.
Martina, docente di Arti plastiche, allo stesso modo di Marco afferma che le formazioni sulla didattica e la materia scolastica insegnata sono importanti, ma sono soprattutto gli aspetti rivolti alla crescita professionale e personale quelli che servono a valorizzare il ruolo del docente: “Ho la sensazione, come docente di classe, che ci sia un sovraccarico. Ci sono troppi elementi che ruotano intorno al nostro lavoro e si perdono dei momenti preziosi, di qualità. C’è pochissimo tempo per ‘esserci veramente’ e cogliere le opportunità del processo. Se togli troppo tempo ai docenti, questi non avranno la possibilità per approfondire temi importanti…”. Martina fa riferimento soprattutto alla burocratizzazione della sua professione e alla costante ricerca dei risultati. A questo proposito, Luigi riflette sull’impraticabilità di alcuni aspetti appresi nelle formazioni dei docenti, come la creazione di ‘griglie d’osservazione’: “Ci presentano strumenti interessanti ma che non rispecchiano la reale necessità della classe. Spesso, si offrono formazioni nelle quali si apprendono nozioni che però appesantiscono la nostra professione, oltretutto decontestualizzate dalla nostra realtà”. E Martina aggiunge: “Si vive sempre con una pressione addosso; dopo la pandemia questo è stato eclatante”. Marco, riprendendo il ruolo del docente di classe, evidenzia: “Un percorso di carriera professionale del docente è assente. Si potrebbe cominciare dal riconoscimento del ruolo del docente di classe. Si svolge un lavoro che non corrisponde di certo all’ora di sgravio dall’insegnamento. Valorizzare e accompagnare questo ruolo gioverebbe ai ragazzi e all’intera società, poiché potremmo seguire meglio le varie necessità di allieve e allievi”.


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L’insegnante, un agente del cambiamento

Se il “come imparano” è fondamentale, la valorizzazione della carriera professionale degli insegnanti e la loro formazione lo sono altrettanto. Entrambe vanno di pari passo con la cosiddetta “teacher agency”, ovvero la capacità dei docenti di essere “agenti di cambiamento”. Ma di quale cambiamento stiamo parlando? Questa capacità d’azione deve essere possibile non solo coi ragazzi, ma anche sui contesti scolastici e strutturali in cui si insegna. A questo proposito, Martina, Marco e Angela reclamano una maggiore considerazione delle loro esigenze e delle loro idee da parte di chi sta a monte delle decisioni delle politiche educative. Angela evidenzia: “Alcune formazioni sembrano quasi imposte dall’alto e sovente non dialogano con le nostre necessità”. Marco esprime il bisogno di variare le possibilità e di non avere sempre le solite persone a capo di queste formazioni. Ci racconta: “È interessante avere degli sguardi più ampi per poter abbracciare nuove idee. I punti di vista alternativi nutrono il dialogo. Nel mondo attuale sono importanti delle visioni che permettono di affrontare la disciplina diversamente”. Ma liberare la capacità del docente di essere un motore di trasformazioni sociali dipende anche dalla qualità educativa e dalla presenza o meno di fattori inibitori.


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L’inghippo: tra responsabilità e autonomia

La professionalizzazione dei docenti vive anche di paradossi, per esempio quello tra responsabilità e autonomia. Sono trascorsi oltre vent’anni da quando il pedagogista ginevrino Philippe Perrenoud (Développer la pratique réflexive dans le métier d’enseignant. Professionnalisation et raison pédagogique, ESF Editeur, 2001) spiegava la relazione tra autonomia e responsabilità. Se le autorità vogliono mantenere il controllo sugli insegnanti e sulle scuole, al contrario gli insegnanti sovente non vogliono renderne conto ad altri. La combinazione di questi due fattori crea tensioni e per superarle gli educatori dello sviluppo professionale dovrebbero soprattutto collaborare con un dipartimento dedicato alla creazione di ricerche “in educazione” (per un reale miglioramento dell’istruzione) e non “sull’educazione” (dettata da esigenze politiche e distaccata dai suoi attori principali). Per risolvere questo problema, la ricercatrice svizzera Gather Thurler (si veda “L’établissement scolaire: lieu de Développement Professionnel?”; in Conference de Comparisons Internationelles, Centre national d’étude des systèmes scolaires, 2021) suggerisce che gli insegnanti siano in grado di agire come attori collettivi e difendere l’idea che tutta la scuola sia un “organo che impara”. A questo proposito, la loro “agency” può essere efficace se la scuola dà importanza ad alcune componenti, che abbiamo riassunto nel riquadro a lato:

Il valore della diversità
La scuola impara quando riconosce che la forza di un sistema vivente è la diversità piuttosto che l’uniformità, quando permette e incoraggia la condivisione e la valorizzazione delle esperienze locali.

Il diritto di sbagliare
La scuola impara quando adotta procedure di problem solving e quando accetta la provvisorietà e l’incompiutezza delle strutture dei programmi, abbandona lo spirito del sistema e il mito della riforma definitiva, sostituisce la riforma, la sperimentazione concertata e l’errore alle direttive e alle ricette dall’alto.

Un’epistemologia realistica e critica
La scuola impara quando accetta i limiti della conoscenza del bambino e dell’apprendimento, riconosce le impasse e l’impotenza di ogni azione pedagogica, rifiuta il pensiero magico e si libera dai meccanismi difensivi e dagli effetti di facciata.

La preoccupazione per il metodo
La scuola impara quando si dà il diritto e i mezzi per farlo, quando si organizza per formulare problemi, inventariare ipotesi, non girare a vuoto ma individuare variabili modificabili.

Una certa oggettivazione
La scuola impara quando accetta di prendersi e di essere presa come oggetto di analisi e di teorizzazione, quando le strutture e le pratiche, le rappresentazioni e gli atteggiamenti possono essere descritti e spiegati piuttosto che giudicati.

Un’apertura al mondo esterno
La scuola impara quando accetta di guardare oltre le proprie mura, di cercare ipotesi, paradigmi e strategie in altre organizzazioni e in altri campi sociali, di esporsi così com’è al mondo esterno.

Insegnare? ‘È una pratica morale’

Queste condizioni sono un humus fondamentale. A questo proposito il docente Luigi si chiede se il nostro sistema d’istruzione “occidentale” abbia dato veramente luogo alla società che volevamo. Un bel quesito, non c’è che dire. Quel che pare certo è che questa critica costruttiva è fortemente sentita anche dagli altri docenti intervistati. Se pensiamo alle parole di David Carr, professore di Filosofia dell’educazione in un saggio del 2003: “Il lavoro del docente è – non meno di quello del medico o di chi opera nel campo della giustizia – una pratica morale”; ovvero, un lavoro che si fonda sul giudizio professionale riflessivo. Forse questo loro “giudizio” è vitale per ripensare a una scuola che giovi alla salute della nostra società. A noi non resta che riconoscere il valore di questa meravigliosa professione con la “P” maiuscola e augurarci che a tutte le allieve e tutti gli allievi capiti un giorno di incontrare quella docente o quel docente che da adulti ricorderanno con un sorriso e tanta gratitudine.

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