Storie e curiosità col ‘ghiro d’Italia’ (ma senza sudare)

Anche se non siete amanti della bici, qui potrete trovare pane per i vostri denti. Perché in su e in giù seguendo la Maglia Rosa non si pedala e basta…

Di Valerio Rosa

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

“Cosa state sulla strada come
allocchi ad aspettare?
Il ‘Ghiro d’Italia’ non lo vedrete passare!
Il ghiro, miei cari, è una bestia senza fretta:
non va nemmeno in triciclo,
figuriamoci in bicicletta”.
(Gianni Rodari, da Il libro degli errori, 1974)

Mentre la carovana e i corridori del Giro sono partiti ieri da Budapest, il ghiro d’Italia viaggia comodamente senza staccarsi dal divano: tra le pagine dei libri o davanti alla televisione, va dove vuole e quando vuole, cambiando idea e direzione ogni volta che gli va. Agli sportivi la fatica, la stanchezza e la sofferenza: il ghiro preferisce starsene in panciolle, piluccando storie e leggende curiose da raccontare.

4a tappa – Avola/Etna-Nicolosi (10 maggio)
“Sentendolo parlare lei lo guardava fisso. Tanta gentile freschezza le ridestava, tumultuosamente, le sue prime sensazioni di ragazza. Fremiti deliziosi le correvano per tutta la persona; il cuore le si gonfiava”: nulla di strano nei sussulti amorosi di una bella e giovane signora, se non fossero stati rivolti al figlio di primo letto dell’attempato e impegnatissimo marito. La matrigna, ancora nel fiore degli anni, e un diciassettenne apparentemente ingenuo, complice “quell’autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera, con qualche cosa di più intimo”: un fattaccio di corna realmente accaduto un secolo e mezzo fa in una nobile famiglia di Palazzolo Acreide, nel Catanese. Tuoni e fulmini si abbatterono sui due amanti, colti in flagrante. Il magistrato che indagò sul caso ne fornì i particolari a Verga, che scrisse la Storia fosca. I familiari del tradito acquistarono il racconto per non farlo pubblicare. Allora il giudice spifferò tutto a Luigi Capuana, che scrisse la sua Storia fosca e la pubblicò.

6a tappa – Palmi/Scalea (12 maggio)
L’Isola di Dino e l’Isola di Cirella se ne stanno buone e tranquille sul Tirreno calabrese, di fronte all’abitato di Praia a Mare. Vi fanno il nido i gabbiani, rare varietà di palme nane offrono la loro ombra a roditori e innocui rettili, primule e garofani ingentiliscono il paesaggio, placidi tramonti ascoltano indulgenti le vane promesse degli amanti. Nel passato mitologico sono state, invece, irrequiete e infrequentabili: si muovevano in balìa di un mare perennemente agitato, scontrandosi spesso, e i flutti si infrangevano contro i loro scogli con grande violenza. Un ambiente così inospitale che persino Ulisse, che pure aveva un talento irrefrenabile per cacciarsi nei guai, preferì evitarlo passando dalle parti di Scilla, il mostro dagli orrendi latrati e dai sei lunghissimi colli, su ciascuno dei quali pendeva una testa spaventosa, e Cariddi, la gigantesca lampreda che provocava terribili correnti marine sputando e risucchiando l’acqua del mare. E se questo era il male minore…

7a tappa – Diamante/Potenza (13 maggio)
Secondo insigni studiosi siciliani, Shakespeare si chiamava in realtà Crollalanza, era nato a Messina e, dopo l’insuccesso della commedia dialettale Tantu trafficu ppi nenti (in italiano: molto rumore per nulla), opera giovanile che già ne rivelava le doti, cercò fortuna a Londra, dove superò brillantemente le iniziali difficoltà legate alla lingua. Allo stesso modo, in Basilicata gode di largo credito la teoria che Hugues de Paynes, fondatore dell’Ordine dei Templari, fosse il lucano Ugo de’ Pagani, neanche lui profeta in patria. Origini templari avrebbe la millenaria e misteriosa chiesa dedicata a San Vito a Maratea, sulle cui pareti sono stati dipinti un capretto (il guardiano del tesoro dei celebri monaci guerrieri) in equilibrio su un libro semiaperto (a indicare verità segrete) e iscritto in una cornice a forma di pentagono (simbolo esoterico dell’uomo risvegliato, ossia dell’Iniziato) e, inoltre, decine di rose intorno a una croce fiorata. Verità o leggenda? As You Like It, come dicono a Messina.

8a tappa – Napoli/Napoli (14 maggio)
Il lupo mannaro campano è una personcina coscienziosa e ammodo, che amministra i suoi beni con la diligenza del buon padre di famiglia, rispetta la moglie e si preoccupa per l’avvenire dei figli. Prima di trasformarsi in lupenaro o pampanaro, si premura di chiudere gli animali nella stalla, per evitare di massacrarli; lancia ululati di avvertimento perché ci si possa mettere al riparo; quando ha ripreso sembianze umane bussa tre volte ai familiari per farsi aprire. “Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo. E anche la memoria di essere state bestie. Poi, quelli non si ricordano più di nulla”, racconta Carlo Levi. La categoria merita in effetti di essere riabilitata. Vittima di dicerie pretestuose e anche un po’ razziste, il lupo mannaro sconta l’aspetto respingente e il cattivo odore, ma in realtà è una creatura sensibile e di grande cuore: durante la Seconda guerra mondiale i licantropi ulularono per avvertire la popolazione dei bombardamenti. In bocca al lupo, dunque.

9a tappa – Isernia-Blockhaus (15 maggio)
I libri di fiabe, che sono libri d’onore, assicurano che da queste parti c’è un tesoro. A volte lo difende una tessitrice fantasma, che non appena vede avvicinarsi qualcuno si dissolve in una bufera di vento selvaggio. A volte una gallina che, per ostruire il passaggio, cova uova d’oro così pesanti che non si riesce a spostarle. Oppure un rospo che in un battibaleno si ingrandisce fino a diventare una strega. Oppure una ragazza che a mezzanotte si trasforma in un gatto selvaggio e riacquista sembianze umane solo se il suo fidanzato, che deve avere una gran pazienza ed essere davvero tanto innamorato, la trafigge con uno spillone. Si potrebbe raggiungere il tesoro a bordo di una carrozza di fuoco senza guidatore, ma il giovane che prova a salirvi la trova sempre occupata da streghe: se le signore hanno la luna storta, sbatacchiano il malcapitato sugli alberi e sulle pietre e ne ricavano concime per quelli che non hanno diritto alla sepoltura. La morale è che il tesoro non è mai stato trovato. E vi consigliamo caldamente di non provarci.

10a tappa – Pescara/Jesi (17 maggio)
Ricordate la casa in via dei matti numero zero, molto carina, senza soffitto, senza cucina, e in cui mancavano anche il pavimento, il tetto e il vasino per fare pipì? Il Duomo di Recanati, almeno dall’esterno, fa la stessa impressione, perché non ha una facciata e l’ingresso principale è nella fiancata laterale. Non lasciatevi ingannare dall’apparenza di una costruzione impossibile, degna degli incubi di Escher o della fantasia patafisica di Luigi Serafini: l’interno è uno scrigno ricco di tesori, dal sarcofago di Gregorio XII, ultimo Papa a non essere sepolto a Roma, all’affresco di Lorenzo Lotto raffigurante San Vincenzo Ferrer. Il Santo, che troneggia su una nuvola, ha i tratti di Savonarola: due angeli lo spingono in alto, altri due ne sorreggono con fatica il mantello; il suo sguardo truce e ammonitore segue lo spettatore ovunque vada; una mano indica, su un libro aperto, una profezia dell’Apocalisse, un’altra gli angeli che con squilli di tromba annunciano il Giudizio Universale. Siete ancora in tempo per pentirvi.

11a tappa – Santarcangelo di Romagna/Reggio Emilia (18 maggio)
Secondo le nostre ricerche, i vitelloni romagnoli, indefessi promotori del turismo sulla riviera e rampanti paladini della pace tra i popoli, sarebbero i parenti ingentiliti ed evoluti dei famigerati Mazapegul, folletti dispettosi e birboni, dalle sembianze feline o scimmiesche, che di notte si intrufolano nelle camere delle belle ragazze, spinti dal desiderio di possederle. Se le malcapitate li assecondano, ricambiano la gentilezza riordinando loro la casa, ma se li rifiutano, preferendo le attenzioni dei legittimi compagni, si scatenano in fastidiose rappresaglie: mordono, graffiano, nascondono oggetti, buttano tutto all’aria. È ormai accertato che, accecati dalla passione, alcuni Mazapegul, come il gorilla di Brassens e De André, non vadano tanto per il sottile, deviando spesso e volentieri le loro attenzioni verso gli uomini, che si svegliano dopo una nottata piena d’incubi, ignari di cosa sia realmente successo. Occhio non vede…

12a tappa – Parma/Genova (19 maggio)
Come ci hanno insegnato a scuola e, non meno efficacemente, anche i cartoni animati, Zeus punisce i trasgressori della legge e dell’ordine, di cui è dio, con poderose scariche di fulmini. Non è infrequente che La Lanterna, il simbolo di Genova, venga colpita e persino spenta da lampi e saette: il padre degli dèi non si è mai lasciato intenerire dalle invocazioni religiose incise quattro secoli fa a scopo propiziatorio sulle lapidi murate in ciascun lato della torre. Un’ira divina che spiegheremmo con lo sgarbo inflitto dai genovesi all’architetto che progettò la Lanterna: ingrati, lo gettarono in mare. Non avrebbero sopportato l’idea che potesse ripetere altrove un simile capolavoro di perfezione e di maestosità; ma questa giustificazione non convinse i rivali veneziani, i quali, sostenendo che anche il più bieco stereotipo poggi su un fondo di verità, malignarono che quei taccagni tolsero l’architetto di mezzo per non doverlo pagare.

13a tappa – Sanremo/Cuneo (20 maggio)
Molto istruttiva la leggenda che accompagna l’orogenesi della Bisalta, montagna cuneese dalla doppia cima, che un tempo però aveva un’unica punta. Dopo aver onorato fin troppo il vino di un’osteria, un contadino della zona non riusciva a ritrovare la via di casa, un po’ per la sbronza e un po’ per l’oscurità, perché le ripide pareti del monte oscuravano la luna piena. Smoccolando all’ennesimo scivolone, esclamò che avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di vedere sprofondare la cima. Improvvisamente comparve una squadra di diavoletti, armati di pale e picconi, che in men che non si dica demolirono la vetta del monte. A quel punto il loro capo, Belzebù in persona, pretese di formalizzare l’accordo in un contratto scritto, ma quando vide che il contadino, analfabeta, firmava con una croce, se la diede a gambe dalla paura. Morale della favola: in Italia l’unico modo per risolvere il problema della lentezza delle opere pubbliche, neutralizzando una burocrazia farraginosa e disarmante, è vendere l’anima al diavolo.

14a tappa – Santena/Torino (21 maggio)
Nella chiesa di San Domenico, a Chieri, i fantasmi ne combinavano di tutti i colori, e le ronde notturne di fedeli armati di randelli non erano valse a dissuaderli. Il berretto del sacrestano volteggiava come una farfalla, prima di posarsi sul manico della scopa con cui il brav’uomo spazzava il sagrato; le campane salivano e scendevano su per le scale; paramenti sacri si spostavano dal coro alla sacrestia. Vicende degli anni Trenta, cui la stampa diede grande risalto, confermando che la stupidità è, insieme all’idrogeno, l’elemento più diffuso nell’universo, come dimostra la disavventura di questa signora: “La mattina alle 5 era partita da casa per recarsi alla stazione e prendere il treno per Torino, ma impressionata da tutto ciò che sentiva dire a proposito di spiriti, invece di fare il percorso più breve, che la costringeva a passare davanti alla chiesa, essendo ancora buio, credette fosse più prudente allungare il cammino di dieci minuti e giunse così alla stazione senza aver trovato gli spiriti. Ma non trovò nemmeno il treno, che era già partito”.

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