Clock DVA: incubi passati e presenti

Nel 1981 usciva ‘Thirst’, l’album che li fece conoscere. Più tardi col singolo ‘The Hacker’ crearono la colonna sonora di un mondo che aveva abbracciato il sogno della grande rete

Di Giancarlo Fornasier

Oggi Sheffield è una cittadina del South Yorkshire che conta oltre mezzo milione di abitanti. Nota in epoche di industrializzazione come la patria del crogiolo e dell’acciaio inossidabile, lo scrittore George Orwell era convinto che potesse «giustamente ambire al titolo di città più brutta del Vecchio Mondo». Nel corso della Seconda guerra mondiale qui si costruivano armi e munizioni come fossero caramelle, il che non le portò fortuna, diventando tra le mete preferite dei bombardamenti aerei tedeschi. Da allora demolizioni e tentativi di ricostruzione non mancarono: il risultato furono enormi periferie con casermoni e un nucleo abitato da fantasmi.
Gli anni Ottanta in Inghilterra faranno rima con «declino»: economico, di idee, di politiche sociali e le vecchie città industriali furono le vittime predilette. È a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta che in questa città con un piede nel baratro e l’altro nel carbone, il polistrumentista e creativo Adi Newton muove i primi passi: contamina il rock con sovrapposizioni di free-jazz, psichedelia, rumorismo e letteratura, da J.G. Ballard ad Anthony Burgess. Nascono i Clock DVA, nome ispirato proprio dal romanzo A Clockwork Orange di Burgess (1962).


Adi Newton

Battiti da società future

A Sheffield altre formazioni si stavano muovendo in acque piuttosto malsane (su tutti i Cabaret Voltaire e In The Nursery), coincidenza non casuale e che negli anni a seguire porterà alla nascita di una vera «scena» in città, inevitabilmente legata all’elettronica. Fondatore anche del progetto The Anti Group – col quale negli anni a seguire approfondirà in musica temi come l’interazione tra corpo e onde sonore –, Adi Newton e compagni miscelano i Pink Floyd alla dodecafonia e all’atonalismo, e spolverano il tutto con l’avanguardia «industrial» dei Throbbing Gristle. Nel 1980 pubblicano White Souls In Black Suits, un acquerello dadaista a tinte foschissime di improvvisazioni rock acide e dilatate, con ritmiche e tessiture quasi anarchiche. L’anno seguente arriverà Thirst, lavoro più organizzato, personale e ricco di spunti: come testimonia il brano «4 Hours», che già annuncia un profondo interesse verso il mondo dell’uomo-macchina.
Dopo il parigino Advantage (1983; lavoro più canonico e infarcito di new wave) Adi Newton si trasferisce in Olanda. Non a caso: la scena elettronica nei Paesi Bassi stava fornendo impulsi molto stimolanti (Front 242 e Klinik, per esempio) e i Clock DVA/The Anti Group iniziano a sperimentare.

Nel 1988 e con una certa sorpresa Newton pubblica con l’etichetta berlinese Interfish il singolo «The Hacker». «Within the language of machines, a digital murder, a mathematical terrorist, an algebra of evil…» recitano le note di copertina: benvenuti nel mondo di internet e del potere informatico. Nel lato B il brano «The Connection Machine», dedicato all’intelligenza artificiale, alle banche dati illegali e alle tecnologie applicate alla sorveglianza: temi familiari, che dite? Il suono è ipnotico e potente, freddo ma struggente, colmo di intrecci ritmici e percussioni orchestrali. I testi sono infarciti di letteratura e classicità, arte e profezie. Seguirà il singolo «The Act» (dedicato alla violenza sessuale e alle perversioni), altra significativa anticipazione dell’album-capolavoro Buried Dreams (1989), la perfetta colonna sonora per la lettura di classici moderni della fantascienza cyber di allora: da Johnny Mnemonic e Neuromante di William Gibson (1977-1984) all’immortale Cacciatore di androidi di P. K. Dick (1968). I Clock DVA approfondiranno il concetto anche nei seguenti Man-Amplified (1991) e Sign (1993), con fortune alterne: la civiltà e le tecnologie, infatti, guardavano già verso nuovi orizzonti.

IL SUONO NUOVO – I THROBBING GRISTLE
Tralasciando i primi pionieri, compositori e sperimentatori pronti a sondare le nuove frontiere del suono elettrico a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta (da Berio a Cage a Stockhausen), se la musica elettronica è diventata anche «pop» il merito va indubbiamente a un quartetto di Düsseldorf, i Kraftwerk. Dalla solida formazione musicale e attivi già dal 1970, aprirono una vera autostrada di idee utilizzando tastiere, campionatori e batterie elettoniche. Sonorità che nella decadente Inghilterra del 1975, non ancora sconvolta dal garage-punk americano e tramortita dai lustrini del glam rock, trovò terreno fertile nelle menti più visionarie e nichiliste. Al di là dei lavori di Ron Geesin (Electrosound 1 & 2, 1972-’75) e i primi dischi del solito Brian Eno, furono gli inglesi Throbbing Gristle a rileggere in chiave metropolitana il protofuturismo dei Kraftwerk.
Dal linguaggio complesso che abbinava elettronica, rumorismo e arti visive, i Gristle rappresentavano un mondo alienante e «disumanizzato», aggettivo spesso associato alle loro performance. Creatore dell’etichetta discografica Industrial Records, fu il fondatore del gruppo Genesis P-Orridge – nel 1969 già attivo con spettacoli erotico-iconoclasti e in seguito fondatore dei controversi Psychic TV – a creare dal nulla la sottocultura industrial, etichetta in seguito saccheggiata dai cultori della musica per «sballi da pastiglia» nei raduni techno e rave, fenomeni nati nei primi anni Ottanta negli Stati Uniti. Il primo lavoro dei Throbbing è del 1977 (The Second Annual Report), a cui seguiranno D.o.A: The Third and Final Report (1978) e 20 Jazz Funk Greats (1979). Album complessi e certamente da ascoltare a mente aperta e «preparata», ma che mostrano una visionarietà fuori dal comune e pari solo alle ricerche urbane che i Cabaret Voltaire stavano portando avanti in una Sheffield sull’orlo dell’Inferno. L’alienazione post-industriale aveva finalmente un’identità sonora «pop» e a buon mercato.


Throbbing Gristle

SETTE GRUPPI PER CAPIRE (E RISCOPRIRE)

1. Neu!
All’incrocio tra progressive, art rock e proto-punk, il duo formato da ex membri dei Kraftwerk è tra i padri del rinascimento musicale tedesco noto come krautrock, alla base delle generazioni new wave, synth-pop e post-rock. Più che mille parole valgono i primi album Neu! (1970) e Neu! 2 (’72), oltre al brano «Hero» (’75).

2. Suicide
Ecco la New York più nera del nero. Attivi dal 1971, Alan Vega e Martin Rev destabilizzano ancora oggi col loro omonimo debutto del lontano 1977.

3. Cabaret Voltaire
Originari di Sheffield, mixano suoni urbani, elettronica e musica concreta: sono la colonna sonora di una città vittima della guerra e di un’urbanizzazione alienante. Mix-Up (1978) e soprattutto Red Mecca (’81) se volete capire.

4. Chrome
Americani di San Francisco, passano dal garage-elettronico di Alien Soundtracks (1978), dove fantascienza, industrial, rumorismi si sposano in un turbine di pulsioni. Toccano l’apice in Half Machine Lip Moves (’79), estremo, iconoclasta, seminale, epico.

5. Nurse With Wound
Inglesi, in bilico tra sperimentazione, rumorismo e musica ambient, il loro primo Chance Meeting on a Dissecting Table of a Sewing Machine and an Umbrella (1979) rimane un solido caposaldo del suono «disumanizzato».

6. New Order
Poco amati dalla stessa band, Movement (1981) e Power, Corruption and Lies (1983) spiegano cosa sarebbero diventati i Joy Division. Poi il gruppo si innamorò delle discoteche… e amen.

7. Stereolab
Ovvero quando gli allievi superano i maestri. Elettronica low-fi e marxismo incrociano la «musica cosmica»: imperdibile il solidissimo Mars Audiac Quintet (1994), per dirne uno. Ma la loro discografia è tutta da scoprire.

LO STRUMENTO – IL MOOG MODULAR
Creati dall’americano Robert Moog a partire dal 1964, sono stati i primi sintetizzatori analogici disponibili sul mercato. Dal suono inconfondibile, che cosa sarebbe stata la colonna sonora di Arancia Meccanica elaborata da Wendy Carlos senza di loro?

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