La montagna capovolta (una storia di sopravvivenza)

“La notte non dà tregua e quando sbuca il mattino tutto sembra tremolare e i larici svengono…”

Di Giorgio Genetelli

Pubblichiamo un racconto apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

La montagna. Mah… se per Erminio (Ferrari, ndr) era ciabattona, lui che la percorreva con la dignità dei pellegrini, allora la nostra è da piedi scalzi nella palta. Poi qualche volta siamo anche andati su e giù con il serio impegno di portare cose per rimettere in piedi una stalla o per riparare un sentiero o per aiutare qualcuno, okay, ma secondo me quella montagna lì non conta, è qualcosa di edificante, nel senso del costruire e assistere, con la pretesa cristiana, e decisamente fuori contesto, di fare qualcosa per la comunità, che sennò sei un egoista e vedrai quando avrai bisogno tu. 

La montagna per noi è non costruire niente, un arrivare in un posto discosto da tutto, carichi di birre e salame, e darsi alle parole strampalate, vestiti alla rinfusa, senza differenza tra la notte, il giorno, senza comandi, senza pasti caldi. In paese ci chiamano profanatori e perdigiorno, ma non ci seguono perché costa fatica arrivare dove i larici ti salutano piangendo resina. Altro che clausura: i nostri virus ce li teniamo in altitudine e ci fanno compagnia senza scassare la coscienza. E voglio anche dire che confinarci per mesi in mezzo a una montagna disagiata sarebbe una gran cosa, peccato non aver avuto in passato una pandemiuccia da sfruttare per esiliarci in piena indipendenza.
– Ti rendi conto che non abbiamo detto una sola cosa sensata? – mi disse il Dani un giorno che non si poteva stare nella cascina a causa del fumo e stavamo appollaiati su un sasso lacerato dai fulmini a tracannare dal fiasco, avvolti in pelosissime coperte dell’esercito.
– Che cazzo di domanda è?
– Giusto. Ritiro.

Sono sempre escursioni da tre o quattro elementi, a geometria variabile. Ognuno coi suoi guai da seppellire al piano, sotto il tappeto del conformismo, ma da esibire in altura come spezzoni altamente comici. La morosa, i debiti, il lavoro, il militare, i piedi piatti, il vegetarianismo, i funerali, una sconfitta, il piano regolatore, la domenica: tutta roba di qualità, da smontare e rimontare fino a quando non ha più una forma riconoscibile e si può tranquillamente far rotolare in un burrone, come coi sassi. Teniamo in palmo di mano la mazza casalinga e la nostra esistenza, se pare poco.
Chel bon tof da sarbuìt… – spiega il Cicio mentre solleva il coperchio della pignatta con le luganighe e noi si attende a lingua fuori e camicie cartonate dagli spruzzi della salsa da tomatis (primo e secondo finché si può).

Verso una qualche ora della sera, quando fa così caldo che il camino potrebbe partire come una locomotiva e qualcuno, probabilmente il Denco e le sue fiacche ai calcagni, si ritira nel giaciglio, si provano canzoni. Dapprima ci si impratichisce con il testo giusto, poi si adattano le parole in modo che le si possano cantare solo tra noi, senza il rischio di essere fraintesi nella nostra letizia e finire magari davanti al pretore per la permalosità di un qualche personaggio citato, o canzonato, per restare in tema.
Il Dani tiene in caldo una manciata di biscotti nelle mutande e ogni tanto ne sfila uno, ma per educazione ci chiede se ne vogliamo e al “no” se lo pappa. Sono quei biscotti alle nocciole, duri come sassi ma che al caldo inguinale un po’ rinvengono, e che chiameremo, anche nei salotti più distinti, Biscot Dala Borso (BDB).

Intanto, le montagne allineate fuori si quietano incalpestate e le nuvole si frantumano nel buio mentre scavalcano i crinali sbagliando la misura. C’è di sicuro anche lo scrosciare dei torrenti, ma dentro scroscia solo la birra negli esofagi e le minzioni nel cesso, rigorosamente a porta spalancata perché così si fa, per vanto. La notte non dà tregua e quando sbuca il mattino tutto sembra tremolare e i larici svengono. Qualcuno fa un calcolo approssimativo: ventiquattro ore, duecento metri percorsi in totale all’aperto, molti dei quali a zigzag e senza una meta certa, o almeno memorabile. Qualcun altro fa notare che al piano probabilmente sono già in coda per un posteggio e hanno camminato anche meno, prima di appostarsi a una scrivania senza il camino e neanche un BDB da sfilarsi.
Poi ci viene in mente che è il Lunedì di Pasqua e il Cicio indice una piccola funzione con Eucaristia (salamin e vin, marchio registrato) e predica collettiva sulle amenità del vivere all’aria buona (non è che un’intuizione perché fuori nessuno è ancora andato e dentro aleggiano monossidi che neanche la mascherina tiene botta).


Fontana, Valle Bavona – © Ti-Press

Ha nevicato, toh, un trenta ghei. L’erba secca è sotterrata e per un altro po’ non dovrà impegnarsi a farsi primaverile per armenti scomparsi da tempo, ma ben presenti nei discorsi dei barboni del piano (ognuno ha i suoi fantasmi). Ora è davvero dura: c’è da finire le scorte di companatico ammassate nel Magic Box (una scatola delle mele eretta a centrotavola), perché nessuno vuole riportarsele al piano, ma l’impresa non riesce completamente. E intanto nevica ancora, fiocchi piatti come medaglie. Occorrono sacchi dei rifiuti ai piedi e con quelle gamasce (idro)repellenti da trentacinque litri andiamo in processione verso un’antartide a picco, fermandoci soltanto per qualche foto a tradimento al Denco che arranca in retrovia e che ci dichiara bastardi. Quando da un promontorio vediamo il paese giù nella piana, senza un filo di neve a ingentilirlo, e sentiamo i rumori dell’autostrada, verrebbe voglia di tornare indietro o almeno di non andare avanti. Qualcuno propone di finire le poche scorte e da sotto un castagno, al riparo dall’epica della montagna e con la bocca piena, ci diciamo che per morire di fame è meglio rimandare alla prossima occasione.

Non abbiamo piantato bandiere, ma in qualche modo è una conquista anche questa qua, a piedi scalzi, anche se quasi nessuno è d’accordo.

 

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