Ai margini: riflessioni su chi c’è, ma non si fa notare
Una società senza asociali o è morta oppure è una dittatura. Perché abbiamo molto da imparare da chi non ama i riflettori
Di Sara Rossi Guidicelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato settimanale de laRegione
“Noi restiamo a margine, non produciamo, non aiutiamo la società dello sviluppo a migliorare la sua tecnologia, il suo sapere scientifico, la sua opulenza. Noi non operiamo sulla natura; dicono che parassitiamo il mondo, il fatto è che non lo sfruttiamo. Non lo modifichiamo, noi. Ci adattiamo nelle sue pieghe, ce ne teniamo un po’ fuori. Osserviamo, e con una piroetta ci divertiamo a raccontare ciò che vediamo”. Come dare loro torto? Come sentirci superiori, noi che inquiniamo, deforestiamo, alziamo grattacieli, ci scervelliamo per trovare un altro pianeta o una coltivazione di insetti che necessiti di poca acqua e poco spazio perché non ne abbiamo più?
Prendiamo lo Schnorrer, quello che racconta ma chissà cosa dice, quello che si crede professionista dal talento affabulatore ma per campare mendica, quello che nello Shtetl, nel villaggio ebraico, rappresenta la follia e il parassitismo. È beffardo e non gli importa di avere una casa o un cappotto; si accontenta di un piatto di minestra quando capita ed è il più felice di tutti. Perché una società sana ha bisogno di un personaggio così, fuori dagli schemi? Cosa c’è di prezioso nel non fare parte, nel restare ai margini, osservando e contraddicendo? Cosa possiamo imparare noi che siamo dentro (chi più chi meno) da loro che sono ai margini… e poi loro chi sono? Non stiamo parlando di chi è emarginato socialmente, economicamente, etnicamente, contro il suo volere. Parliamo della categoria dei “marginali di piazza”, quella che forse oggi è rappresentata solo in parte da certi “strambi” o “artisti”, fra gli zingari e le famiglie dedite all’arte circense; in alcuni luoghi esistono ancora i vagabondi cantastorie, che fino agli anni Sessanta giravano nelle campagne. Ma non solo…
Uno “Schnorrer” a Lipzia. Illustrazione tratta dal periodico “Die Gartenlaube”(1875; © Wikipedia).
Radici storiche dei vagabondi
L’etnologo e linguista Glauco Sanga ha fatto una ricerca sui “marginali” e li ha studiati così: fino agli anni Sessanta del Novecento giravano questi personaggi senza fissa dimora, che svolgevano piccoli lavori stagionali e muovevano storie. Viaggiavano nelle campagne, dove in cambio di un pasto caldo e un giaciglio intrattenevano i contadini nelle lunghe serate di veglia. Raccontavano e raccontavano, ogni sera lasciavano in sospeso la storia come la principessa Shahrazad per salvarsi la vita; loro lo facevano per arrivare alla zuppa del giorno dopo. Erano fiabe e racconti di mondi e tempi diversi, in una lingua mai troppo connotata geograficamente: un italiano popolare, mentre fra di loro i viandanti usavano un gergo particolare che non veniva usato con gli estranei. Quando i bambini andavano a dormire i marginali continuavano la storia con elementi più piccanti, spaventosi e talvolta anche osceni.
L’etnolinguista fa risalire alla fine del paleolitico questa categoria di persone che non si mischiano del tutto né però si isolano; restano cioè sul bordo. Bisogna tornare a quando l’Essere Umano, circa 10mila anni fa, ha cominciato a tramutare la sua economia di vita dalla caccia all’agricoltura; bisogna immaginare che alcuni cacciatori-raccoglitori, che da 70mila anni vivevano una vita nomade, iniziavano a fondare villaggi e ad addomesticare qualche pianta e animale. Non tutti di colpo uscirono dalla foresta e si diedero all’agropastorizia, fu un processo lento e graduale, in cui si videro varie tribù rimanere nel bosco continuando a vivere di caccia e di ciò che le piante selvatiche potevano offrire; oggi ce ne sono ancora pochissime, in Amazzonia, Malesia, Australia, nell’Artico e in alcune parti dell’Africa.
In questo processo di sedentarizzazione durato millenni, quali scambi sono avvenuti tra gli uni e gli altri? Sanga avanza questa ipotesi: si sa che esistevano contatti fra queste popolazioni. C’erano scambi di tipo economico fra i nomadi cacciatori e i sedentari agricoltori, per esempio barattavano selvaggina contro farina, miele contro ferro. I cacciatori-raccoglitori gestivano le questioni mediche e quelle magiche (oggi a volte li chiamiamo stregoni, marabù, curanderos) conoscevano le proprietà delle erbe, raccontavano le storie degli spiriti. I contadini li temevano pur vantandosi di essere più evoluti. I cacciatori lavoravano qualche ora al giorno e forse nemmeno tutti i giorni, perciò avevano tanto tempo libero che impiegavano conversando: così si sarebbe sviluppata l’arte del racconto. Forse presero a narrare i propri miti agli agricoltori, perché là fuori non vigeva l’interdizione magica che c’era all’interno della loro società. È così che sono nate le fiabe e che si sono diffuse in tutto il mondo, simili fra loro. Da questi esseri della foresta, secondo gli studi di Sanga, discendono culturalmente (non biologicamente) i marginali, quali vagabondi, mendicanti, malviventi, ambulanti, fieranti, circensi, marionettisti. Sono coloro che si sono sottratti al lavoro agropastorale, hanno rifiutato la domesticazione e hanno continuato a vivere di attività non produttive o di espedienti. Sono conosciuti in età antica, nel Medioevo, fino a pochi decenni fa, come esseri colti, talvolta malandrini, fieri della loro furbizia e libertà.
© G. S.
L’etnologo e linguista Glauco Sanga.
I marginali di oggi
Mi torna in mente il film autobiografico Quando ero Cloclo di Stefano Knuchel. Anche il regista ticinese si definisce in un certo senso ‘un marginale’ e dice che questa condizione ha guidato la sua vita; gli è arrivata addosso, insieme al padre che lavorava in affari sempre sul limitare della legalità, insieme all’infanzia senza scuola, con quattro fratelli, tantissimi traslochi, la gestione di un night club in cui si ricorda un orso ballare e giochi di prestigio…
“Per me – spiega Knuchel – se una società è sana, aperta, capace di rigenerarsi, ha un buon rapporto con la marginalità. Io la vedo come una diversità positiva, un monito contro il pericolo dell’eugenia, contro la mania di sicurezza, bellezza, salute, conformità. Io mi sento marginale dentro, perché ci sono nato e perché non potrei scendere a certi compromessi che certe regole sociali impongono. Penso che ci siano altre persone che sentono nel proprio intimo qualcosa che non va, un senso di non appartenenza a ciò che gli sta intorno e magari provano a ‘curarsi per sentirsi come gli altri’. Invece sono convinto che se accettata, questa sensazione possa diventare un motore grandissimo, una motivazione a superare dei limiti, a costruire o anche solo pensare qualcosa di diverso”. Il suo mestiere di artista lo rende un traghettatore, da un mondo all’altro, da un luogo di sole eccezioni a un altro apparentemente fatto di regole.
È il mestiere di qualcuno che a un certo punto si alza e dice di no. O dice altro. “E in una società sclerotizzata può sembrare fuori di testa, sul momento, ma magari quel no o quell’altro portano dentro di sé il seme del rinnovamento”. La marginalità non va né capita né nascosta, ma messa in luce. Bisogna darle spazio. “Per esempio – continua Knuchel – io lavoro alla RSI da 30 anni e ho visto un grande cambiamento: vedo sempre più giovani che entrano nell’azienda con un piede solo, tenendosi un altro tempo per viaggiare e fare altri lavori. Prima il sogno era diventare tutt’uno con il tuo posto di lavoro, definirti tramite lui. Ora invece c’è una forma di rispetto verso sé stessi e i propri sogni che induce ad avere sì una professione, ma anche un bordo dove stare e fare altro, in libertà. Per me anche questa è una forma interessante di marginalità”. È come se il margine si ampliasse e la pagina non occupasse più tutto il posto.
© Swiss Films
Stefano Knuchel, regista e produttore.
Chi oggi è ai margini della produttività
C’è un altro aspetto importante: non solo uno sguardo esterno ci aiuta a capire meglio noi stessi e il nostro mondo (e riderne, sdrammatizzare, ribaltare le regole, rivalutare certi aspetti); i marginali oggi possono anche essere studiati come esempio di rapporto diverso possibile con le risorse del mondo, in chiave ecologica. Non è nel loro modo di vita lo sfruttamento, l’accumulazione, il consumismo. Ne sono rimasti immuni. Per questo mi rivolgo a una persona che riflette – per passione e per lavoro (è direttrice di Pro Natura Ticino) – sulla società umana: Serena Wiederkehr-Britos, etnobiologa. “Secondo me si fa tanto parlare di riduzione dei consumi, di quello che ognuno di noi può fare. Ed è giusto in un certo senso, ma a me non sembra sufficiente. Facciamo la raccolta separata della carta, a volte scegliamo il treno, e ci mancherebbe altro; il problema è che questo ci mette a posto la coscienza. Dobbiamo consumare meno, sì. Ma dovremmo consumare talmente tanto meno, che non so se ne siamo capaci. Il punto dunque per me è un altro: non è sufficiente chiedersi come o quanto consumare meno, ma dobbiamo prima scavare per capire perché consumiamo come matti. Forse possiamo smetterla di osservare i marginali con un certo disprezzo e provare a vedere in che modo una vita leggera porta alla sobrietà. Perché loro sanno come riempire un vuoto materiale con delle storie e un bicchiere di vino in compagnia? A noi non basta. Come mai? Noi siamo sempre da un’altra parte, a occuparci di qualcos’altro. Viviamo la nostra vita e insieme un’altra parallela su internet. Che cosa cerchiamo di riempire? Che cosa ci manca dentro che cerchiamo fuori? Dobbiamo forse essere più spirituali? Dobbiamo tornare capaci di pensare? Rivalorizzare l’ozio? Adesso sembra che vada più di moda dire “in questo periodo sono occupatissimo” piuttosto che “sto pensando molto”. Ma cosa significa spirituali? Non per tutti è la religione o l’introspezione. Può essere l’innamoramento della vita. Io personalmente ho una fede che a volte, non spesso, ma come tutte le fedi vacilla: è la fede nella vita, nel fatto che ci sono cose belle al mondo. È la fede più semplice e forse la più complicata. Io penso che i marginali hanno questo: raccontando le storie, giocano con sé stessi. Imparano, si divertono, con la propria persona e la propria arte trasportano gli altri e questo li riempie. Ci sono altri modi di riempirsi senza oggetti, parole vuote, immagini a raffica, ma possiamo partire da qui. Dalle storie, alternate al pensiero. Ti svuoti, ti riempi. C’è un tempo per pensare e uno per esprimersi. I marginali sono liberi, hanno tempo, e sanno cosa farsene di questa libertà e di questo tempo. Penso sia ora di chiederci: sappiamo cosa farcene noi, della libertà?”.
Serena Wiederkehr-Britos