Homer e la rivalsa del vero sé

Col debutto dei ʻSimpsonsʼ avvenuto più di trent’anni fa, cominciò a vacillare quel tabù mediatico delle animazioni perbeniste e dal lieto fine. Una rivoluzione

Di Giovanni Luise

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

Homer Simpson è un bifolco, ignorante, tonto ed egocentrico personaggio. È un padre che si dimentica il compleanno dei figli, è un marito che spesso non ascolta la moglie, è un assenteista dal lavoro, ed è uno che rinchiude l’anziano genitore in un ospizio e che si sente in pace con sé stesso quando lo va a trovare due volte l’anno. È letargico, rimanda tutto ciò che è rimandabile, ama sperperare migliaia di dollari in assurdi prodotti pubblicizzati in TV ed è schiavo di ciambelle, birra e costolette. Eppure in un recente sondaggio americano, alla domanda “Quale personaggio famoso vorresti avere come padre?” , il disegno scaturito dalla matita di Matt Groening ha sbaragliato tutti trionfando come prima scelta. Al secondo posto si è piazzato Dio e al terzo Leonardo Da Vinci.

Non so che fare…

Perché questo bizzarro pupazzo giallo di Springfield con i capelli a zig-zag che non rappresenta certamente l’archetipo del buon padre di famiglia, è così venerato ed è stato capace di dar vita a intere generazioni simpsoniane? Semplice, Homer è l’esasperata icona di quel sistema decisionale che non riusciamo a mettere in atto perché considerato socialmente inammissibile. Se dessimo ascolto al nostro Homer interiore, alla suocera che ci sta raccontando l’ennesimo aneddoto dei suoi tempi, risponderemmo “no ti prego, che palle!” invece di esclamare “ma dai, che forza!”. È capace di suscitare un’empatia incondizionata perché guardando lui, è come se riscoprissimo un atteggiamento di indulgenza verso gli altri ma soprattutto verso noi stessi che va ben oltre quel dualismo concettuale di giusto e sbagliato, buono e cattivo, ragione o torto, istinto o razionalità. Mentre noi siamo alla disperata ricerca di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparci, lui è pienamente consapevole della sua mediocrità. È ottimista, allegro, spensierato, ride rincorrendo le farfalle e quando mangia una torta, se la gusta. Semplicemente, ama ciò che è. Ammirandolo ci entusiasmiamo perché da solo è in grado di rappresentare la caricatura vivente dei peggiori tratti dell’uomo adulto moderno, ma contemporaneamente riesce a dimostrarci che nella vita per sentirsi realizzati non occorre essere dotati di chissà quale intelligenza.


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Essere sé stessi

Noi indossiamo una maschera che cambiamo a seconda del contesto sociale, lui non fa niente per camuffare i suoi difetti. Non cerca di trasformarli goffamente in virtù. Riesce a rimanere sé stesso anche quando si candida in politica, creando il geniale slogan “Non può farlo qualcun altro?”. Homer rappresenta il nostro sacrosanto diritto a fallire, a sentirci fuori luogo, a non ostentare l’essere quei bravi ragazzi che non siamo, a non vergognarci di alzare la mano e dire “scusate, non ho capito” , e a liberarci da quell’ansia perenne di non dover sbagliare mai. 
Ma perché abbiamo così bisogno di sentirci maledettamente adeguati in ogni circostanza? Quand’è che abbiamo cominciato a equiparare l’inadeguatezza all’ottusità? Se avessimo l’umiltà di accettare che non possiamo eccellere in tutto, potremmo provare a migliorare e invece tendiamo a mascherare. 
Chi di noi non ha mai provato almeno una volta il mitico “brivido Homer”? Magari evitando di andare a buttare la spazzatura, annoiandosi a parlare con il vicino o facendo finta di ascoltare il proprio partner mentre ripeteva una cosa già detta.
Non temiamo quindi di assomigliargli. In fondo non sarebbe poi così male abituarsi a dire ciò che pensiamo, oziare ogni tanto senza sentirsi in colpa, chiedere scusa quando sbagliamo, o rispondere “ti ringrazio, ma non mi va!”, quando ci invitano da qualche parte invece di accampare delle scuse ridicole per evitare di offendere il prossimo. Altro che meditazione, altro che crescita interiore, altro che percorso spirituale grazie a libri rivelatori o presunti guru. Basta guardare i Simpsons. Homer umanizza principi psicologici secolari svelandoci il segreto fondamentale per la felicità: imparare a essere noi stessi accettando il fatto di essere imperfetti, perché quando accogliamo i nostri limiti riescono a farlo meglio anche gli altri.

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