Disavventure Latine 4. Frontiera vista mare
Colombia, stiamo arrivando! Sì, prima però ci sono un paio di formalità e alcune usanze locali da “evadere”. Procediamo con calma: eccoci alla dogana…
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.
Volevo vedere il Canale di Panama perché da bambino sfogliavo quei libroni con le grandi opere dell’uomo. E poi volevo attraversare un confine. Un confine vero. Perché ormai in Europa, anche quando ci sono, è come se non ci fossero. Niente timbri, niente suspense, niente di niente. Ti giri e all’orizzonte vedi l’Ikea da tutte e due le parti. E non sai più se stai tornando a casa o se stai andando via. In America Latina, come altrove, le frontiere sono mondi a parte: faccendieri, cambiavalute, procacciatori di ogni genere di bene materiale e immateriale. Tra Panama e Colombia è un mondo ulteriormente a parte. Sempre se non scegli la via facile, l’aereo, o quella difficilissima, avventurarsi tra le boscaglie e i guerriglieri del Darien, al cui confronto i faccendieri di confine hanno la pericolosità dei puffi. Insomma, volevo entrare in Colombia in un modo un po’ avventuroso, ma possibilmente vivo. Ci sono arrivato via mare, su una barchetta grande quanto un divano, ma non altrettanto comoda. Da lì mi aspettavano la Cartagena di García Márquez, la Medellín di Escobar e la Bogotá di due tipi loschi col coltello. Ma ancora non lo sapevo.
Salpati da Naranjo Chico, l’isola del Piccolo Arancio che non aveva aranci, siamo arrivati su un altro isolotto di San Blas per passare l’ultima notte prima di attraccare in Colombia. Ad accoglierci c’è solo uno sparuto gruppo di cani scodinzolanti. Guardando i nomi sulla mappa deduciamo di essere arrivati a Perro Chico o a Perro Grande (Piccolo e Grande Cane). Veniamo subito smentiti, “perché nelle isole dei cani non ci sono cani”. Qui, però, non ci sono persone. Il motivo è che – per un disguido organizzativo – nessuno ci stava aspettando, cani a parte. Ripareremo su un’altra isola a pochissima distanza dal Darién, la striscia di foresta che unisce e divide Panama e Colombia, frequentata perlopiù da guerriglieri e narcotrafficanti. In mezzo al verde c’è un piccolo aeroporto e nient’altro. Ce ne accorgiamo perché ogni tanto, dal nulla, sbucano piccoli velivoli: il resto sono alberi a perdita d’occhio da una parte, Mar dei Caraibi dall’altra. Troviamo un alloggio di fortuna e la serata (in questo posto senza internet, senza acqua calda e con poca luce) diventa un megatorneo a un gioco di carte chiamato Il Presidente, dove a contare più di tutto è la fortuna (in francese lo chiamano anche ‘trou du cul’, tanto per capirsi). Le regole sono talmente semplici che a spiegarle bastano pochi secondi e alla fine vogliono partecipare un po’ tutti, locali compresi. Ognuno tira fuori quel po’ di alcolici che ha in valigia e la serata si fa presto nottata. Il giorno dopo ci fermiamo per un’ultimissima tappa sull’Isola della Balena, dove, nemmeno a dirlo, non ci sono balene, ma un enorme campo da calcio che potrebbe contenerne una.
© R. Scarcella
Destinazione Capurganá
Quando stiamo per arrivare a Puerto Obaldía, dove ci sono le guardie di frontiera, Edwin, la nostra guida, ci raccomanda di gettare in acqua qualsiasi tipo di droga. Lo fa con insistenza, quasi fino alla sfinimento. Il motivo sarà chiaro più avanti, quando veniamo messi in fila contro il muro – in stile I Soliti Sospetti – in costume e nient’altro, dai doganieri. Le nostre valigie vengono messe davanti a noi, per terra, e un cane che sembra uscito da un’illustrazione dell’Inferno di Dante viene liberato da una gabbia e portato ad annusare ripetutamente i nostri averi. Non ho nulla da temere, ma la situazione fa comunque salire la tensione. In direzione opposta viaggiano due spagnoli di cui le guardie non si fidano affatto. Fanno tirare fuori dal bagaglio tutto e li fanno denudare. Poi li portano in una piccola casetta sul retro. Vorrei fare una foto alla situazione o almeno al cane, ma ci sono cartelli enormi ovunque che dicono di non farlo. Meglio lasciar perdere. Il cane, intanto, è già rientrato nella gabbia. Passato il controllo restano le formalità burocratiche che ci lasciano un po’ di tempo per girovagare per Puerto Obaldía, sul cui cartello di benvenuto c’è scritto, ben visibile, “Pueblo en desarrollo” (in via di sviluppo). In effetti, a parte un piccolo bar, un caldo opprimente, cartelli che provano a disincentivare il traffico di droga e l’immancabile campo da calcio, non c’è nulla. Da lì si riparte per la Colombia: pochi minuti di barca, sufficienti per attraversare via mare il confine. A terra, in cima a uno strapiombo, ci sono due aste e una sola bandiera: quella di Panama. “Quella della Colombia l’hanno già rubata tre volte, e per ora si è deciso di non rimetterla”.
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A Puerto Obaldía è tutto talmente provvisorio che lo scrivono perfino sul cartello di benvenuto.
Il Grande Fratello (che non si vede)
Una volta arrivati a Capurganá, finalmente in Colombia, le cose cambiano. Si moltiplicano barche, voci, fermento. Ci sono negozi di souvenir e tour operator che possono organizzare escursioni di ogni tipo. C’è un problema però se arrivi dall’estero: i soldi. Non esiste una banca a Capurganá e l’unico bancomat è dentro l’ostello della gioventù, che ha una percentuale da strozzinaggio sul prelievo. Quei pochi che permettono pagamenti con le carte applicano la stessa esosa tattica. Ufficialmente nessuno può cambiare il denaro a Capurganá, lasciando l’economia in un limbo che sembra voluto. In realtà i soldi abbondano, te li cambiano tutti, ma proprio tutti, con tassi di conversione ovviamente spaventosi. E pure il rischio di farsi dare denaro falso. D’altronde chi l’ha mai visto un peso colombiano? E poi, sì, hai in tasca dei dollari, ma dai cambi proposti ti sembra di girare con qualche svalutato dinaro dell’Est Europa. Io sono stato aiutato dall’ultimo a cui avrei pensato. E tra l’altro si è proposto lui: l’impiegato dell’ufficio immigrazione che mi ha messo il visto sul passaporto. Ovviamente si è tenuto una percentuale, ma tutto sommato – se così si può dire, visto il ruolo – è stato il più onesto. Capurganá, come tanti posti di confine, è frequentata da faccendieri e contrabbandieri. Eppure mi assicurano che per un viaggiatore è il posto più sicuro di tutta la Colombia. Il motivo? “Semplice. Non c’è la polizia, ma i paramilitari”. Che detta così non è semplice per niente. “Hai fatto caso che non c’è nessuno con la divisa in giro? È perché qui comandano i paramilitari, che hanno uomini, occhi e orecchie dappertutto. Sono vestiti in borghese e hanno l’interesse a mantenere l’ordine”. Un discorso che dovrebbe tranquillizzarmi, ma chissà come, non ci riesce.
© R. Scarcella
Capurganá. dove però non funzionano né internet e nemmeno la macchina del caffè.
Il cane, oltre il buio…
Non contento, una volta ritrovati i quattro ragazzi con cui ho fatto la traversata via mare, decido di andare con loro a fare il bagno in una cascata lungo il sentiero del Cielo, noto in zona anche come sentiero delle Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, i ribelli che tengono sulle spine il Paese da anni). Per arrivarci si passa in mezzo alla pista di un aeroporto. Da lì ci si inoltra nella foresta con indicazioni tutto sommato precise per essere dove siamo. A colpirci più di tutto sarà il canto di un uccello che non riusciamo a identificare, ma che subito ribattezziamo Game Over, perché emette un suono identico a quello di quando si perde una vita nei videogiochi. Una volta trovate le cascate facciamo il bagno, ci attardiamo e uno di loro durante una corsa in discesa riesce a schiantarsi contro un albero che ha aculei che sembrano chiodi: poteva andargli meglio, ma anche peggio. Quando rientriamo è già buio e dei cinque telefonini che abbiamo, solo tre, poi due, infine uno (il mio), hanno abbastanza batteria da emettere una qualche luce. Cinque stranieri al buio nel sentiero delle Farc non è in effetti una grande idea. Una volta fatta la doccia, l’unico divertimento serale è un locale allo stesso tempo orrendo e bellissimo, con cinque tavoli da biliardo con il panno blu, stanchi e caraibici ventilatori d’ordinanza e due frigoriferi traboccanti di birra del posto, la Aguila. Ci sono un paio di ragazzi e ragazze che giocano, chi distrattamente, chi – scommettendo soldi – molto più seriamente. Dalle casse esce musica colombiana intervallata da vecchi successi anni Novanta come Boombastic. Come capita spesso, soprattutto in viaggio, è uno di quei posti in cui pensi che non sarebbe il caso di mettere piede, ma da cui – una volta dentro – non vorresti più uscire. Soddisfatto, rientro in albergo, ma all’improvviso un cane sbuca in fondo alla via e mi viene incontro abbaiando: all’inizio proseguo, poi mi fermo, poi arretro, infine scappo. Lui mi corre dietro sempre più minaccioso, interrotto solo da un sasso lanciato a terra da un signore che tiene un neonato in braccio. Mi dice: “Tieni qualche pietra in mano e se ti rompe ancora le scatole, lanciale per terra davanti a lui. Scapperà. Ma vedrai che non serviranno”. Serviranno. La mattina dopo, sveglia presto, c’è da prendere la barca per attraversare il capriccioso golfo di Urabá e poi un bus: destinazione Cartagena. Si preannunciano 12 ore di noia. Diventeranno 17, estenuanti e tutt’altro che noiose.
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Serata perfetta a Capurganá: birra Aguila ghiacciata, biliardo e ʻottimaʼ musica (del passato)…
© R. Scarcella
Sulle strade delle FARC