Disavventure Latine 6. Cartagena Express

Tra un titolo imperdibile di “Gabriel Falsía Márquez”, una partita (quasi cinematografica) a calcetto Europa vs Colombia, ma in attesa di partire per Medellìn…

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Volevo vedere il Canale di Panama perché da bambino sfogliavo quei libroni con le grandi opere dell’uomo. E poi volevo attraversare un confine. Un confine vero. Perché ormai in Europa, anche quando ci sono, è come se non ci fossero. Niente timbri, niente suspense, niente di niente. Ti giri e all’orizzonte vedi l’Ikea da tutte e due le parti.E non sai più se stai tornando a casa o se stai andando via. In America Latina, come altrove, le frontiere sono mondi a parte: faccendieri, cambiavalute, procacciatori di ogni genere di bene materiale e immateriale. Tra Panama e Colombia è un mondo ulteriormente a parte. Sempre se non scegli la via facile, l’aereo, o quella difficilissima, avventurarsi tra le boscaglie e i guerriglieri del Darien, al cui confronto i faccendieri di confine hanno la pericolosità dei puffi. Insomma, volevo entrare in Colombia in un modo un po’ avventuroso, ma possibilmente vivo. Ci sono arrivato via mare, su una barchetta grande quanto un divano, ma non altrettanto comoda. Da lì mi aspettavano la Cartagena di García Márquez, la Medellín di Escobar e la Bogotá di due tipi loschi col coltello. Ma ancora non lo sapevo.

Ci sono intere generazioni segnate da un film, magari non il più bello. Anzi, quasi mai il più bello. Ma ci si affeziona a un’idea, a un’immagine che ha in sé qualcosa di replicabile da tutti all’infinito. La mia generazione è incappata nella partita di calcio nel deserto di Marrakech Express, la mia l’ho giocata a migliaia di chilometri dal Marocco insieme a 4 ragazzi che arrivavano dall’Inghilterra e hanno rischiato di finire prima all’ospedale e poi in galera, come qualsiasi giocatore inglese degli anni 80-90, tra l’altro. Tant’è, non si sa come, ma alla fine erano in campo, un rettangolo di cemento, con su le righe di altri 6-7 sport, all’interno del Parque del Centenario, la piazza di Cartagena che è un concentrato di tutto quel che può essere la Colombia che s’affaccia al mare. Il parco ha all’interno iguane che ti guardano perplesse e all’esterno venditori di libri che sono un distillato di Sudamerica. Pigri i librai, pigre le bancarelle, pigri quelli che s’avvicinano a sfogliare i libri: sarà il caldo, l’atmosfera. Lì vendono soprattutto Gabriel García Márquez, il figlio prediletto. Dicono di avere prime edizioni e copie autografate: sparano cifre astronomiche, ma ti accorgi presto che è tutto un Gabriel Falsía Márquez.


© R. Scarcella
Birra fresca al mercato.

‘Guarda che sole…’

Oltre il parco, verso il mare, c’è tutto il centro coloniale, preservato come un museo, lindo come un abito da sposa, bellissimo eppure talmente strofinato che a forza di grattare devono avergli raschiato via l’anima. In giro ci sono quasi solo americani che sembrano usciti da un fumetto di croceristi, con macchine fotografiche in stile safari, mogli debordanti, pance debordanti e addosso quelle camicie XXXL improbabili con disegnate le ancore, i maialini, le bandierine, gli hot dog. Ci sono guide turistiche che fanno a botte per un tour e donne in abiti tipici che per una foto ti chiedono cifre da prima edizione finta di Márquez: basta saperlo, tirare dritto e cercare il bello dove hanno fatto di tutto per farlo risaltare, nascondendotelo. Quello che incanta è la luce, e forse pensava a quello García Márquez quando, ne L’amore ai tempi del colera, scrisse che Cartagena era la città più bella del mondo. Ci sono momenti in cui la luce arriva, colpisce le facciate dai colori accesi dei palazzi e inventa tonalità nuove. Tu resti lì, impalato, a pensare com’è che a casa tua lo stesso sole non regala uno spettacolo così abbagliante.
La vera Cartagena sta però dall’altra parte del Parque, a Getsemani, il quartiere che si sta risollevando, anche grazie al turismo, con bar per tutti i gusti, locali con ventilatori stanchi, cameriere che non si fermano mai e un pappagallo chiacchierone che importuna i passanti. C’è anche un cartello, in una via dove passano tutti, con scritto “Qui non si può fare pipì”. Un posto dove non ti sogneresti mai di farla davvero. Vai a capire. Di giorno c’è una quiete tropicale – simboleggiata dagli anziani che chiacchierano con le sedie in mezzo alla strada – interrotta solo dai venditori ambulanti con carretti di frutta luccicante che sembra colorata coi pennarelli. La sera è birra, sigarette e musica che esce da vecchi stereo portatili. Gioventù. Il tempo è davvero sospeso, da farti pensare che se vivi qui, vivi al rallentatore ma vivi il doppio. I negozi non espongono quasi nulla, eppure sanno trovarti di tutto. Tu resti nel negozio, loro escono, con calma, poi tornano. Quello che non c’era, te l’hanno trovato. I 4 ragazzi che dalle coste di Panama hanno fatto il viaggio con me fin qui, la prima notte sono stati rapinati da un gruppo di spacciatori che ha preso due di loro in ostaggio e altri due li ha portati al bancomat a ritirare tutto quel che si poteva. Poi gli hanno lasciato la marijuana che avevano comprato: sarà una sorta di codice tutto loro.


© R. Scarcella

 

Europa vs Colombia

La notte dopo lo stesso gruppo di ragazzi incontra la polizia nella stessa piazza, che li ferma, li controlla e si fa pagare per aver fatto finta di non vedere: anche la polizia lascerà loro quel che non avrebbero dovuto avere in tasca. Alla fine, scampati alle guardie e ai ladri (che si comportano più o meno allo stesso modo), un pomeriggio i quattro decidono di sfidare un gruppo di colombiani che gioca nel parco: 5 contro 5, il quinto sono io. Europa-Colombia. Sarà una partita assurda e appiccicaticcia con i colombiani che sono colombiani, tecnici, dribblomani e che non si passano mai la palla, e i 4 arrivati dall’Inghilterra che fanno quello che si fa da una vita sui campi inglesi: lancio del portiere su quello più alto e come va va. In mezzo io che provo a farla diventare una partita di calcio, con poco successo. Con il pallone europeo dei ragazzi stiamo vincendo 12-3, ma quando passiamo al pallone colombiano, mezzo sgonfio, è quasi un altro sport e le distanze si assottigliano: vinceremo 25-21, dopo ore e dopo essermi completamente spellato la pianta di un piede. Inutile chiedere un Compeed per placare il bruciore della ferita e far ricrescere la pelle, nemmeno i medici a Cartagena sanno cos’è. Ma vale la pena un piede dolorante dopo un momento preso di peso da un film generazionale e portato dentro ai tuoi ricordi: una partita così, da cinema, con le iguane a bordo campo, la palla che entra all’incrocio dei pali, supera una rete che non c’è e finisce ai piedi di un carretto di frutta tropicale. Il giorno dopo andremo a festeggiare facendo il bagno in una specie di vulcano pieno di fango, dove è tutto talmente vischioso che ti ritrovi a galleggiare. La sera siamo a Getsemani: loro al mattino proseguiranno per Santa Marta, sulla costa, io ho l’aereo per Medellín. Ci conosciamo da poco più di una settimana e non potremmo essere più diversi, eppure baci, abbracci, “prosegui con noi”. Ho un piede dolorante e la lacrimuccia, ma è arrivato il momento di separarsi col sorriso, pensando a quel che diceva Kurt Vonnegut agli studenti quando andava a fare i suoi discorsi nelle università: “Quando siete felici, fateci caso”. Essere felici a Cartagena è anche meglio, una questione di luce che ti resta dentro – chissà come – anche quando va giù il sole.


© R. Scarcella
El totumo: come nuovi dopo il “bagno” di bellezza, ecco la squadra vincente al gran completo (io sono il secondo da sinistra, per capirci).

Articoli simili