Disavventure Latine 2. I nazisti dei Caraibi

Il viaggio verso la Colombia continua: da Panama e il suo Canale ci spostiamo sulla costa. Fra gente che dovrebbe esserci ma non c’è e infausti vessilli…

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Volevo vedere il Canale di Panama perché da bambino sfogliavo quei libroni con le grandi opere dell’uomo. E poi volevo attraversare un confine. Un confine vero. Perché ormai in Europa, anche quando ci sono, è come se non ci fossero. Niente timbri, niente suspense, niente di niente. Ti giri e all’orizzonte vedi l’Ikea da tutte e due le parti. E non sai più se stai tornando a casa o se stai andando via. In America Latina, come altrove, le frontiere sono mondi a parte: faccendieri, cambiavalute, procacciatori di ogni genere di bene materiale e immateriale. Tra Panama e Colombia è un mondo ulteriormente a parte. Sempre se non scegli la via facile, l’aereo, o quella difficilissima, avventurarsi tra le boscaglie e i guerriglieri del Darin, al cui confronto i faccendieri di confine hanno la pericolosità dei puffi. Insomma, volevo entrare in Colombia in un modo un po’ avventuroso, ma possibilmente vivo. Ci sono arrivato via mare, su una barchetta grande quanto un divano, ma non altrettanto comoda. Da lì mi aspettavano la Cartagena di García Márquez, la Medellín di Escobar e la Bogotá di due tipi loschi col coltello. Ma ancora non lo sapevo

Potevo prendere l’aereo, come tutti. Invece no, ho deciso di arrivare in Colombia via mare. Come un avventuriero, come un trafficante, come un cretino. Ho messo la sveglia alle 4.35 del mattino, una mossa che dovrebbe essere illegale in vacanza. L’ho messa così presto perché tra le cinque e le cinque e mezza avrebbero dovuto venirmi a prendere direttamente in hotel seguendo quel cervellotico sistema centro-sudamericano che sembra una gentilezza e invece è una tortura. In pratica un pulmino passa a prendere uno a uno chi ha prenotato un determinato viaggio: un modo perfetto, quasi scientifico, per far impazzire sia chi viene recuperato per primo e si ritrova per ore a girare per le stesse strade, sia chi viene lasciato ad aspettare, con i pensieri sempre in bilico tra il “mi hanno dimenticato”, il “mi dimenticheranno” e il “perché mi hanno fatto preparare un’ora fa se non sono ancora passati?”.


© R. Scarcella

C’è nessuno?

Il sistema l’ho imparato durante un viaggio in Guatemala, dove però almeno erano passati a prendermi. Purtroppo per primo. Qui non vedo nessuno alle 5, nessuno alle 5.30, nessuno alle 6. Telefono a due numeri diversi e non mi rispondono, mando sms e messaggi WhatsApp: non mi rispondono. Alle 6.30, con calma, mi chiamano: “Ehm, ci siamo dimenticati”. Almeno non mi lasceranno in hotel, ma manderanno, di lì a poco, un simpaticissimo autista di un’app similUber per farmi raggiungere il resto del gruppo diretto a Cartí, un piccolo porto nel nord del Paese. Dopo un’ora di chiacchierata standard con l’autista (calcio, donne, cibo italiano vs cibo locale) arrivo a Pacora, dove avevano fatto fermare il pulmino in una specie di autogrill per aspettarmi. A bordo ci sono quattro ragazzi che dormono e una coppia di tedeschi, oltre all’autista e alla guida.Dopo un numero interminabile di curve arriviamo a una specie di check-point con militari armati in mimetica e una bandiera che inizialmente penso sia un’allucinazione dovuta al sonno, ai ritardi e alle curve. È una bandiera della Spagna con dentro un segno che ricorda tanto una svastica. Stiamo entrando nel territorio dei Guna Yala, fiero popolo indigeno che mantiene una sorta di indipendenza dentro i confini panamensi. Per entrare c’è una tassa di venti dollari. Io e i tedeschi guardiamo la bandiera, ci guardiamo tra noi e aspettiamo che ci facciano passare. Sulla destra ci sono due signori in borghese seduti sotto un’altra bandiera spagnola con svastica incrociata a un’altra bandiera meno inquietante, seppur sempre minacciosa: due braccia che sorreggono un arco e una freccia. Insomma, benvenuti tra i Guna Yala. Un popolo fiero, mi dicono. Pure troppo per i miei gusti.


© R. Scarcella

La strada per il Reich

Quando ripartiamo, iniziamo a fare un numero di curve inumano tra continui saliscendi, così per complicare ulteriormente le cose: io che leggevo sono costretto a smettere, i ragazzi che dormivano si svegliano, la ragazza tedesca inizia a contorcersi. Dopo poco vomita. Ci fermiamo e iniziamo a capire il perché di tutte quelle auto parcheggiate a bordo strada lungo il percorso. La ragazza chiede scusa, autista e guida parlottano tra loro e si dicono, apparentemente sollevati: “Dai, siamo quasi arrivati e ha rimesso solo una persona”. Un successo, a quanto pare. Ma io inizio a guardare gli interni dell’auto con maggior circospezione. Quella strada, scoprirò poi su Google Maps, è talmente piccola e tortuosa che bisogna fare uno zoom a livello micro per trovarla. 
Arrivati al porticciolo di Cartí, da dove partirà la nostra barca diretta alle Isole San Blas, e poi – dopo un viaggio di tre giorni – in Colombia, le bandiere ispano-naziste si moltiplicano. Sono all’ingresso del porto, sul molo, davanti al bar e praticamente su ogni barca ormeggiata o in movimento. La guida si fa pagare i 300 dollari pattuiti per la traversata, ci fa firmare qualche foglio, si dilegua e ci lascia lì ad aspettare una delle tante barche che fanno avanti e indietro. I tedeschi sono visibilmente a disagio, i quattro ragazzi ci scherzano su e io inizio a pensare a come potrebbe essere una vacanza in un arcipelago dominato da nazisti spagnoli.


© R. Scarcella
Naranjo Chico

Cucina glocal e letture discutibili

A parte l’indigesta paella con i crauti e la pesantissima tortilla con i würstel, non è poi tanto male immaginarsi un resort caraibico nazispagnolo, intanto ci sono birra e sangria a volontà e magari anche un cineclub all’aperto, tra le palme. Certo, proietterebbe probabilmente solo film di Leni Riefenstahl. Tra gli altri inconvenienti spiacevoli, gente che si saluta dicendo “Hola Hitler”, una biblioteca per il relax in spiaggia con il Mein Kampf in castigliano e l’intero catalogo di Altaforte, serate con il flamenco tirolese e dj che mixano Aserejé con i suoni della Luftwaffe, giochi di società di dubbio gusto come l’affondamento delle barche battenti bandiera americana o l’invasione del Costarica. Così, tanto per fare gruppo. Quando poi scopro che una delle cinque persone che ci accompagnerà lungo il viaggio è davvero tedesca e lavora lì, inizio a chiedermi cosa ci faccia e a pensare che il soggiorno possa davvero essere come l’ho immaginato. O anche peggio. Ma quando arriva Edwin, il nostro Caronte caraibico, sorridente, simpatico, alla mano e molto poco nazista, capisco che forse le cose non andranno poi tanto male. È arrivato il momento di salpare per Naranjo Chico, l’isola il cui nome tradotto in italiano vuol dire Piccolo Arancio. Ma sia chiaro, ci dicono, lì arance non ne sono mai cresciute. Non sarà l’ultima insensatezza del viaggio. Come scopriremo nelle prossime settimane…

 

Articoli simili