La mente e i mali invisibili

I disturbi della sfera psichica sono poco conosciuti e quindi fanno paura. Chi ne soffre cerca di non dirlo in giro e si mette ancora più in disparte

Di Sara Rossi Guidicelli

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Sara è una ragazza che oggi studia al Politecnico di Zurigo, ama le passeggiate in montagna, va in edicola a comprare il giornale, esce con i suoi amici. Samuel lavora per pagarsi gli studi di psicologia, ha ripreso a suonare la chitarra, fa politica attivamente. Entrambi mi dicono: ‘Sono più sensibile degli altri, prendo ancora qualche psicofarmaco, ho un coinquilino fisso dentro di me, che un tempo mi ha schiacciato, ma che oggi gestisco io. Ne sono venuto fuori. E ho voglia di parlarne’.


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Samuel Iembo

“Fin da piccolo ricordo di essere sempre stato abbastanza male. Solitudine, tristezza, stanchezza fisica. L’inizio di una cosa che poi ho imparato a chiamare ansia. Il mio medico e i miei genitori però pensavano fosse pigrizia. Con l’adolescenza si è accentuata e si è trasformata in rabbia, depressione, pensieri autolesionisti. Assenteismo a scuola, bocciature. Sono andato da uno psichiatra, mi ha diagnosticato ‘disturbo della sfera dell’ansia’ , ma non andavamo d’accordo. Mi ‘curavo’ l’ansia da solo, sbevacchiando, chiudendomi. Ho cambiato psichiatra e per anni ho preso psicofarmaci, saltuariamente ero ricoverato a Mendrisio, a volte su mia richiesta. Ho provato a proseguire gli studi e a 25 anni finalmente ho finito la commercio. Avevo paura degli ansiolitici ma senza quelli non entravo in classe. A scuola in fondo mi chiedevano solo di ‘essere presente’, anche se rintronato dai farmaci. Non mi sono mai sentito preso a carico davvero; ero lasciato a me stesso. Quando mi sono iscritto all’Università di Losanna, la mia psichiatra mi ha detto di cercare un altro dottore. Non ce l’ho fatta, sono rimasto là solo un mese e poi sono tornato indietro”. 

Un tema tabù
“È difficile parlarne: hai paura dello stigma, del giudizio degli altri; hai paura che dovrai prendere medicine per tutta la vita. La gente ti dice ‘Smettila di piangerti addosso; vuoi attirare l’attenzione’. Così cominci a nasconderti. Vorrei che le persone fossero più informate sui disturbi mentali, così saprebbero che non è ‘colpa tua’ se stai male; vorrei che facessero più domande e che avessero più pazienza. Solo quando ho cominciato a stare meglio ho deciso di aprirmi e ho scritto un post su facebook, raccontando quello che avevo passato: ho ricevuto moltissimo sostegno e anche ringraziamenti da parte di persone che soffrivano in silenzio e non sapevano a chi rivolgersi. Quello che dico è: va bene ascoltare, parlare e confidarsi, ma poi ci vuole l’aiuto di un professionista. Da soli o con gli amici non si può”.

E oggi va meglio
Samuel è iscritto all’Università di Friborgo dove studia Psicologia. Non ha più ansie generalizzate, solo contestualizzate a certe situazioni, che prova a gestire. Con tanta dedizione e costanza si può, dice. E poi, aggiunge, “devi vedere come riprendi la voglia di vivere quando ne vieni fuori, tornano i piaceri, tornano addirittura i colori”.


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Sara Dos Reis

“Tutto per me è iniziato dopo gli anni spensierati del Liceo. Sono partita per il Poli a Zurigo nel 2014 e lasciare il Ticino è stato un trauma. Dalla prima sessione di esami ho capito che qualcosa non andava. Avevo paura di fallire, di perder tempo, di far sprecare soldi ai miei genitori; ero io stessa che mi facevo pressione e ho cominciato a isolarmi, poi da luglio si è scatenato il disagio con paure irrazionali che sono diventate ossessioni. Prima i germi: avevo il terrore di infettarmi e di infettare gli altri. Ho iniziato a lavarmi le mani 33 volte al giorno; a fare undici docce in 24 ore, lunghissime. Poi la morte, gli incendi, gli incidenti. Se passavo vicino a dei binari temevo di aver spinto qualcuno sotto un treno senza accorgermene, quindi continuavo a tornare indietro con angoscia per controllare se non avessi ucciso qualcuno. La paura aveva su di me conseguenze fisiche, simili all’ictus: paralisi della parte destra, inclusa la bocca. Il mio disturbo si chiama ‘ossessivo-compulsivo’: l’ossessione è la paura che ti rende schiavo e la compulsione è quello che fai per cercare di affrontare la paura. Ce l’ho ancora, ma da due anni lo gestisco, non comanda più lui”.

Non serve capire e nemmeno spiegare
“Sono paure illogiche, è un meccanismo che non puoi fermare. A nulla serviva quando i miei genitori o gli amici mi dimostravano che non dovevo avere paura o mi dicevano ‘non pensarci’. Il mio ragazzo dell’epoca mi aveva proposto di farmi vedere da qualcuno ma io mi ero offesa: ‘Non sono mica matta!’ , dicevo. Ero io la prima a stigmatizzare. Poi tutto si è spento attorno a me. A lezione non andavo più: le ultime volte ero entrata in estate coperta da guanti e sciarpa e tutta la classe si era seduta il più lontano possibile da me. Facevo paura. Mi sono chiusa in casa. Mia mamma mi accompagnava dal dottore, mi lavava, mi vestiva. La prima psichiatra mi ha proposto di ‘fare meditazione’, il secondo mi ha stordita di Temesta e mi ha suggerito di richiedere l’Assistenza Invalidità. Avevo 22 anni e mi sono rifiutata. Poi, per fortuna ho incontrato il dottor Tazio Carlevaro”.

A furia di provare…
“Gli ho scritto una lettera e lui mi ha risposto: ‘Vieni subito; attenta però che il portone giù da basso è chiuso, bisogna aprirlo’. Carlevaro è uno psichiatra esperto, straordinariamente competente e umano; mi ha analizzata, è venuto a casa mia molte volte, ha verificato l’appoggio dei miei genitori, li ha istruiti su come dovevano reagire al mio disturbo ossessivo-compulsivo. Mi ha anche prescritto una terapia farmacologica, ma soprattutto mi ha accompagnata in una rieducazione comportamentale. Mi ha portata vicino ai binari, per insegnarmi con l’esperienza che non succedeva niente; mi ha accompagnata a fare la spesa, perché provassi a toccare le cose senza paura di contagiare e di restare contagiata. Mi ha dato la voglia di tornare a vivere. La cosa brutta di questa malattia è che è come rompersi una gamba, solo che la gamba non c’è. Nessuno se ti vede col gesso ti dice ‘Ma dai, prova a camminare senza stampelle, ti inventi i problemi’. La gente ti sta vicina solo se sa cosa hai. E pochissimi sanno qualcosa dei disturbi psichiatrici. 
Io ho avuto la fortuna di non poter nascondere la mia malattia, ma c’è gente che ha una vita normale e poi però a casa da solo vive le sue ossessioni e compulsioni per anni, senza dire niente a nessuno. È un carcere interno. Io vorrei solo dire: fate domande. Mettete piuttosto in imbarazzo, ma non evitate, non ignorate, non emarginate chi vi sembra abbia un disturbo mentale”. 

Da dove viene la vergogna

Il medico e psichiatra Michele Mattia dirige l’Associazione della Svizzera italiana per i Disturbi Ansiosi, Depressivi e Ossessivo-compulsivi Asi-Adoc. Spiega che il preconcetto arriva da lontano; fino almeno a trent’anni fa la malattia psichica non era riconosciuta come malattia vera e propria. “Un tempo le persone con disturbi mentali erano messe al rogo, incarcerate, escluse dalla società. La psichiatria moderna è una disciplina relativamente nuova. E per modificare le attitudini della società abbiamo bisogno di almeno tre se non quattro generazioni. Si pensa che le persone malate abbiano un potere sui propri pensieri, mentre la depressione è un tumore della mente, non c’è nessuna volontà della persona di essere depresso. È una malattia e può portare al suicidio, che negli adolescenti è la prima causa di morte. Per questo la depressione è un tema di cui dobbiamo parlare e informare. Il grande lavoro che sta facendo la psichiatria negli ultimi 10-15 anni è proprio la lotta contro lo stigma”. In ottobre, l’Asi-Adoc e
il Dipartimento Sanità e Socialità hanno realizzato un video per parlare di depressione visualizzabile su liberalamente.ch. Questo filmato è stato elogiato dall’Oms.

L’associazione Zeta Movement: giovani per i giovani

ʻIt is OK not to be OKʼ: questo è uno dei motti di Zeta Movement, associazione svizzera nata un anno fa da cinque studenti, tra i quali Giada Crivelli. “Vogliamo promuovere il dialogo e la conoscenza intorno ai disturbi mentali” , ci spiega. “Sono malattie che spesso portano con sé un sentimento di vergogna, quindi il primo rimedio è parlarne. Sappiamo inoltre che sono diffuse tra i giovani e che prima inizi a curarti e meglio è”. Prevenzione e informazione, dunque. A causa del Covid-19 il programma è iniziato a metà: la parte online (conferenze, diffusione di video e informazioni sui social) è partita benissimo, ma restano ancora bloccati gli incontri nelle scuole. “Vogliamo andare a parlare con i ragazzi. Ci sono giovani toccati da un disturbo psichico che vogliamo formare appositamente per portare la loro storia nelle classi. Gli incontri prevedono dunque storytelling e la presenza di uno specialista. Vogliamo dire ai ragazzi che se non stanno bene devono chiedere aiuto, senza vergogna. E se vedono un compagno sofferente non devono prenderlo in giro, perché può essere deleterio”.
Zeta Movement vuole contribuire a destigmatizzare un tema che fa paura: se qualcosa non va nella mia testa sono matto? No: succede, non solo a te, e si può fare qualcosa. La salute non è l’assenza di malattia, ma lo stare il meglio possibile nelle condizioni in cui si vive. “C’è lo stigma sociale e quello autoinflitto. Si comincia da sé stessi e poi l’esperienza insegna che quando ci si apre per raccontarsi agli altri, di solito si incontra rispetto. Però manca ancora conoscenza: per esempio ci sono genitori che scoraggiano i figli dall’andare da uno psicologo o da uno psichiatra. C’è paura intorno alla malattia mentale, paura che una persona che ne soffre sia imprevedibile. Dobbiamo mostrare che invece può riguardare persone uguali a tutti gli altri, in grado anche loro di vivere una bella vita. E inoltre – conclude Giada – “bisogna iniziare a parlare di ‘distanza fisica’ invece che di ‘distanza sociale’: la pandemia può essere fonte di grande pericolo per chi già si sente solo, messo da parte, diverso”.

 

 

 

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