United Roads of America. Patria, grilletto e milizie

‘We the People’ (noi il popolo) è lʼincipit della Costituzione americana, a cui si rifanno gruppi armati di nazionalisti. Il risultato lo abbiamo visto

Di Emiliano Bos

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

David Corey, pizzetto e occhiali da sole, impartisce ordini precisi prima dell’avvio dell’esercitazione. “Tranquilli, ho informato lo sceriffo. Lui sa perché oggi siamo qui”. Per sparare proiettili veri nel bosco, simulando un’operazione armata in una specie di scenario di guerra. “We the People” è il tatuaggio a stelle-e-strisce sull’avambraccio muscoloso di Charles, un ex marine che maneggia con calma e perizia il suo fucile, in attesa di inoltrarsi nella boscaglia. Fusti di fucili e alberi ad alto fusto della West Virginia, dall’altro lato delle colline allineate lungo l’Interstate 81.
C’è chi adesso denuncia l’improvviso rigurgito di terrorismo domestico e di estremismo fanatico dopo l’assalto al Congresso di Washington. “State pronti, state preparati”: Donald Trump aveva lanciato il suo messaggio da tempo. Queste milizie non si sono mai nascoste. Anzi. Mi avevano permesso di seguire un loro addestramento già nel 2017. Volontari della “Lightfoot militia” in arrivo da Maryland e Pennsylvania. Radunati per l’occasione in una foresta. In mimetica e pesantemente armati.
“We the People”: quelle parole – l’incipit della Costituzione americana – le ho viste tatuate anche sul braccio di uno degli assalitori del Campidoglio. Mi stava accanto insieme ai facinorosi che hanno tentato invano di sfondare uno degli ingressi laterali, tra granate assordanti, gas lacrimogeni e la polizia che su quel lato dell’edificio è riuscita a respingere l’attacco.
Molti di questi movimenti di miliziani si richiamano alla Costituzione. Quasi una bestemmia laica contro i Padri Fondatori. Una nebulosa di gruppi dove i confini tra sedicente patriottismo e razzismo palesemente ostentato appaiono labili. Ne esistono centinaia: formazioni armate, vere e proprie milizie private, gruppi paramilitari composti spesso da veterani. Monitorati da anni, studiati da esperti. E ora divenuti il simbolo dell’arrembaggio alla democrazia trasmesso in diretta planetaria
il giorno della Befana.


© E. Bos
Infidel (infedele). Un appartenente alla milizia Lightfoot Militia, durante unʼesercitazione nel 2017. Lo stesso gruppo – e lo stesso personaggio – erano presenti a Charlottesville.

Nei boschi della West Virginia

Christian Yingling – un teschio nero cucito sulla divisa – era il comandante della milizia incontrata in West Virginia. “Non siamo di destra, non abbiamo nulla a che fare con i gruppi politici” mi disse. Eppure i suoi uomini – con lo stesso AR-15 brandito tra i boschi – erano presenti anche nelle strade di Charlottesville, quando un mese prima un’armata di neo-nazisti e suprematisti calò sulla città provocando poi la morte di una donna di 32 anni. A Charlottesville, aveva poi insistito il comandante di questa milizia durante l’intervista – “noi abbiamo garantito libertà di espressione in difesa della Costituzione”. Ancora una volta la Magna Charta d’America tirata in ballo. Nella lista dei movimenti anti-governativi compilata dal Southern Poverty Law Center, nel 2019 esso ha censito 576 organizzazioni definite “anti-governative”, di cui 181 milizie armate. Un calo rispetto all’anno precedente, ma il numero è cresciuto negli anni di Trump. E soprattutto ha ottenuto una legittimazione dalla Casa Bianca. La retorica incendiaria del presidente ha concimato in abbondanza un terreno fertile di intolleranza, suprematismo bianco, fanatismo e xenofobia. Che poi si è concentrato nell’insurrezione contro il Campidoglio.
Tra i miliziani della West Virginia, ne riconobbi uno incontrato e fotografato poche settimane prima proprio a Charlottesville. Tra caricatori zeppi di proiettili, coltelli appesi alla cintola e l’immancabile fucile semi-automatico, sulla divisa portava la stessa dicitura: “Infidel” (infedele), scritta anche in caratteri arabi. Sdraiato a terra tra le sterpaglie, nascosto dietro un tronco mi disse: “Io sono cristiano e voglio proteggere i cristiani”. Poi premette il grilletto sparando con la sua arma. Certo, regolarmente detenuta.


© E. Bos
Kenosha, Wisconsin. Carcasse di auto incenerite dopo le violenze e i saccheggi per il ferimento dellʼafroamericano Jacob Blake.

Le fiamme di Kenosha

“Violenza da entrambe le parti” , tenta di giustificare qualcuno adesso. L’hanno detto anche alcuni deputati repubblicani respingendo il voto per l’impeachment di Trump. Disordini e tumulti – dicono – non solo da parte dei sostenitori del presidente. Ma anche di chi è sceso in piazza a protestare nei mesi scorsi contro la violenza razzista della polizia, come i Black Lives Matter. Un rancore detonato, in qualche caso, con assalti devastanti. Come i negozi distrutti a Kenosha, in Wisconsin, dopo il ferimento dell’afro-americano Jacob Blake da parte della polizia. Nel parcheggio dell’autosalone Car Source lo scorso settembre avevo visto le carcasse annerite di decine di auto date alle fiamme. Condanna unanime, certo. Un rabbia – comprensibile – tracimata talvolta in cieco e inutile vandalismo. La risposta armata arrivò da un 17enne invasato di suprematismo, che uccise due manifestanti anti-razzismo proprio a Kenosha. Resta una differenza fondamentale: milioni (nel vero senso) di persone sono scese per strada a protestare nell’estate dell’anno scorso. La stragrande maggioranza delle manifestazioni è stata pacifica. Stavolta a infiammare il rancore – orientandolo verso il Congresso che stava certificando la vittoria di Joe Biden – è stato lo stesso presidente. Lo riconoscono anche alcuni repubblicani. Con la litania di bugie sulle elezioni “rubate”. Una realtà parallela ormai infiltratasi sottopelle a milioni di americani. Lo si è visto nelle settimane prima dell’attacco al Campidoglio. A un’altra manifestazione nelle strade di Washington, un sabato di metà novembre. “Stop the Steal”, fermate il furto delle elezioni. Uno slogan iniettato come veleno con la complicità colpevole di network televisivi compiacenti, opinionisti radiofonici radicalizzati e il tam-tam incontrollabile sui social dell’estremismo. 


© E. Bos
La scalata del muro del Capitol, come un assalto medioevale. In realtà chi conosce lʼedificio sa che basta spostarsi di qualche decina di metri per guadagnare la terrazza.

Antifa(scismo) e squadrismo

Al termine di quella manifestazione avevo visto in azione i drappelli di pseudo anarchici e sedicenti “anti-fascisti”. Antifa, come li chiamano qui. Che in realtà sono degli incappucciati con atteggiamenti squadristi. Ero stato testimone della fastidiosa aggressione contro una coppia di anziani colpevoli soltanto di camminare per strada con una bandiera di Trump. Proprio lì, tra la 16esima Strada e la H Street, dove mesi prima avevo assistito agli assalti della polizia contro i pacifici manifestanti anti-razzismo, ordinati per permettere al presidente di farsi fotografare con la Bibbia in mano davanti alla Casa Bianca. Dan Rather, nell’ottimo libro What unites us, scrive che non bisogna confondere il patriottismo col nazionalismo.
Nella foresta della West Virginia l’obiettivo dell’esercitazione era salvare presunte milizie intrappolate. Per riconoscerle, avevano usato una bandiera confederata. Lo stesso drappo schiavista con cui un sostenitore di Trump dieci giorni fa aveva profanato la Rotunda del Capitol. Dove per la prima volta dalla Guerra Civile si sono accampati i riservisti della Guardia nazionale.  
Il mio aereo sta atterrando a Washington, di ritorno dall’ultima visita fuori città di Trump in Texas. Da quassù si vede il Memoriale di Lincoln che chiude il Mall, dall’altro lato del lungo viale antistante il Congresso. Da quassù, Lincoln sembra corrucciato tra le pieghe di marmo, forse preoccupato per la democrazia americana.

 

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