Petra Taddei, un’infermiera e il suo mondo
Vive in montagna e va in vacanza in montagna. Cura la gente all’ospedale di Bellinzona. Non è lunatica e dorme abbastanza…
Di Sara Rossi Guidicelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
“Io sono diversa dai cittadini. Sono cresciuta in Valle. Sono allergica ai negozi, non li frequento, non so i nomi delle marche, i miei amici mi prendono in giro. Quasi quasi per andare a Locarno prendo la carta d’identità”. Petra Taddei, infermiera specializzata in cure intense, è nata e cresciuta a Ponto Valentino, in Valle di Blenio. Lì vive con i suoi figli e il suo compagno Luigi.
“A me piacciono le feste campestri, quelle dove ci vai in tuta e ciabatte; mi piace stare con la gente rustica e ho un debole per i burberi. Ho vissuto a Lugano e Bellinzona; so cosa vuol dire avere la città intorno, le sue comodità, il lavoro e i divertimenti a due passi. Ma sto meglio qui. Torno dal lavoro e ognuno ha la sua casa, se ne sta tranquillo. Però ci conosciamo tutti”. Petra è generosa, aperta a ciò che arriva, vuole un mondo migliore. Se le chiedi aiuto dice sempre sì. Dà una mano agli amici che traslocano, fa la volontaria per le società della zona, ti lascia un po’ di ragù davanti alla porta se sa che non stai bene; a lei si portano i vestiti e i giochi che i bambini non usano più: lei raccoglie, smista, ridistribuisce.
Ridere, anche in Cure intense
“Lavoro all’ospedale di Bellinzona in Cure intense e faccio i turni, soprattutto serali e notturni, per stare con i bambini durante il giorno. Vicino a casa mia non ci sono molti aiuti come asili nido, doposcuola e così via. I nonni sono fondamentali”. Ama moltissimo la sua professione, Petra. Ci mette passione, dedizione e senso del dovere. “Dopo 18 anni adoro ancora il mio gruppo di lavoro: i miei colleghi sono la mia seconda famiglia. Condivido con loro quello che mi succede a casa, ci raccontiamo i nostri problemi e ridiamo, anche. Ne abbiamo bisogno. Perché il lavoro è duro. Arrivano da noi i casi critici, siamo molto sollecitati. I miei pazienti li ho nel cuore, tutti. Voglio il loro bene, davvero. So che sono capace di dare tanto perché sto bene. E so anche che ricevo tutto indietro”. Le chiedo come si può scegliere di lavorare in Cure intense. A lei piace curare, occuparsi dei pazienti. Non sa spiegare. Ogni paziente per lei è come un parente. Bisogna seguire la sua onda, andargli dietro, non contro. Ascoltare il suo ritmo, il suo bisogno. È come un ballo a due. Tu guidi, lui si appoggia, senti sempre cosa puoi e cosa non puoi fare. “Gli abbracci, gli sguardi, i grazie, quelle parole che ti fanno capire che il paziente sta bene: ecco la mia gratificazione”, sorride questa donna minuta, forte come un fiore di montagna.
Il coronavirus
“Ci hanno venerati durante la pandemia. Ma secondo me bisogna venerare anche chi lavora in ufficio a dare i sussidi alle piccole imprese; quelli che hanno chiuso il ristorante e si sono messi a fare cibo da asporto; tutte quelle persone che si sono riorganizzate o che hanno perso il lavoro o che non hanno avuto il loro stipendio. Noi abbiamo intensificato i turni ma abbiamo continuato a fare quello che facciamo sempre: curare le persone che ci arrivano”.
Petra del mondo non capisce gli sprechi, il consumismo, la prepotenza. Quando vede i documentari su come sta il pianeta riflette molto. Conduce una vita sobria. “Chissà se adesso la gente ha capito cosa conta. Io temo che il mondo potrebbe cambiare, potrebbe iniziare una vita a distanza. Scuola, giochi, lavori solo a distanza, con la mascherina. Non lo vorrei per i miei figli. Qui a Ponto Valentino forse è più facile immaginarsi l’isolamento, perché in un certo senso lo viviamo già: non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose per stare bene, abbiamo già una vita più semplice. Ma vorrei che i miei figli conoscessero le feste e che continuassero a sapere che per lavorare e per conoscere ci vuole una mano che tocca”.
Come i nostri vecchi
Petra in paese è conosciuta perché se uno dei suoi figli si fa male e urla e sanguina lei lo guarda, gli dà un bacio e dice: Su, non sei mica morto. “Sono frasi che ci dicevano già i noss vecc. Io ne vedo di gente che sta male, che ha lesioni gravi, sofferenze mentali. Quando i miei figli giocando si sbucciano o si feriscono, so che si tratta di un ‘male sano’. Non sminuisco il loro dolore, gli do importanza e li consolo; però gli faccio capire che sono vivi, che respirano, che possono ancora camminare”.
Segue le priorità, dice. “Significa che se sto stirando e mi arriva una visita, smetto e accolgo. Se i bambini vogliono andare a fare un giro in bici, andiamo. Adesso è quasi l’una ma stiamo parlando: mangeranno dopo. Prima che la casa faccia schifo la sistemo, ma non mi formalizzo. C’è bisogno di flessibilità. Bisogna seguire l’onda, non complicarsi la vita. Ho bisogno di vivere bene”.