Il vuoto, dentro e fuori

Dove eravate la sera del 27 marzo? A casa, probabilmente. O magari, solo per un attimo, in Piazza San Pietro. Oppure in un altro spazio, senza nulla attorno a voi.

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato nelle pagine de laRegione.

Quel fine di marzo qualcuno era collegato in diretta con Roma, altri ci sono finiti per caso, per curiosità, o perché tanti erano già lì. Si sa com’è, bastano tre o quattro che si mettono a guardare in alto per strada, e hop, tutti con gli occhi all’insù. Già, c’eravamo tutti. Eppure non c’era nessuno. A parte il Papa e quel cielo plumbeo talmente perfetto per l’occasione da sembrare un effetto speciale. Fossero stati in cento, in mille o un milione di fronte al Papa, li avremmo potuti contare. E sarebbero stati cento, mille o un milione. Ma non c’era nessuno. E quindi c’eravamo tutti. Quelli che non si perdono un Angelus, quelli che riscoprono la fede quando le cose si mettono male, i mangiapreti, quelli che della Chiesa – semplicemente – se ne fregano, quelli che “ti ricordi le vacanze a Roma?” e quelli che a Roma non sono stati mai.

Horror vacui

Tutti lì a riempire quel vuoto, fosse anche solo per criticarlo. Perché qui il punto non è il Papa, cosa rappresenta o cosa ha detto. Qui il punto è la nostra atavica predisposizione a riempire i vuoti. Lo facciamo senza neanche accorgercene quando in un parcheggio ci infiliamo nello spazio tra due macchine, anche se poco più in là si starebbe anche più larghi una volta aperta la portiera. Colmiamo vuoti continuamente: mangiando, parlando, amando, comprando, fischiettando, perfino tossendo, piuttosto che niente.
Basta immaginarlo il vuoto per avere paura. Dentro ci si infila un pensiero, uno qualunque, pur di non soccombere. Quella paura ha un nome, in latino, come spesso accade alle cose che ci spaventano, a quelle troppo piccole o troppo grandi per essere afferrate al volo: il nome, in questo caso, è horror vacui. Faceva già litigare gli antichi greci, il vuoto, da Aristotele in poi hanno provato a riempirlo e a spiegarlo filosofi, fisici, psicologi, ognuno a suo modo. Alcune teorie le capirebbe anche un bambino, altre molti di noi non le capirebbero nemmeno studiando una vita intera. Per certe cose bisogna essere portati. Simone Weil, dalle torto, diceva: “Tutti i peccati sono tentativi di colmare un vuoto”. L’assenza ha un effetto straniante soprattutto dove non te l’aspetti. A parte qualche netturbino, e qualche prete particolarmente nottambulo, chi l’aveva mai vista piazza San Pietro vuota? Il buco lasciato dalle Torri Gemelle dopo l’11 Settembre era insopportabile. Gli diedero un nome perché così faceva meno paura; ma non in latino, perché gli americani col latino non se la cavano bene (pur avendo il motto nazionale in latino, E pluribus unum): Ground Zero. Se una cosa fa paura la riempi, le dai un nome. Così sono nate le saghe, gli orchi, i fantasmi, i lupi cattivi. Erano i coronavirus dei nostri antenati.

La storia racconta

Il vuoto provocato da un’assenza è talmente potente da provocare l’effetto contrario. Non c’è mai stata così tanta Mina da quando ha deciso di sparire in Svizzera. Chi l’ha più vista? Eppure è dappertutto: le sue canzoni spuntano nelle nostre radio, i suoi vecchi filmati in tv, perfino la fastidiosissima sigla della Serie A: la canta Mina. Sempre lei. 
Nel 2010 fece scalpore quando consegnarono il Premio Nobel per la Pace a una poltrona vuota. Quell’immagine fece il giro del mondo. Su quella poltrona avrebbe dovuto sedersi il dissidente cinese Liu Xiaobo. Ma non poteva, perché Pechino l’aveva chiuso in galera. Fosse stato lì a ricevere il premio sarebbe stato un dissidente tra tanti. Liu Xiaobo non sarebbe mai stato capace di riempire la sua stessa sedia come seppe fare il vuoto. Il vuoto, bisogna ammetterlo, sa riempire certi luoghi meglio di qualsiasi uomo, qualsiasi folla.
Alle Olimpiadi del 1984,a Los Angeles, sfilarono alla cerimonia inaugurale le bandiere di 140 Paesi, le boicottarono appena in 14, eppure la bandiera che si notava di più non c’era: era quella dell’Unione Sovietica. Quattro anni prima, a Mosca, accadde lo stesso con la bandiera degli Stati Uniti. C’erano sempre i sovietici, anzi non c’erano, quando il 21 novembre 1973 la Fifa prestò il fianco a una pantomima passata alla storia dello sport come la Vergogna di Santiago. I sovietici si giocavano la qualificazione al Mondiale di calcio del 1974, ma – in tempi di Guerra Fredda – si rifiutarono di scendere in campo nello spareggio contro il Cile di Pinochet nello stadio in cui il regime nascondeva e massacrava i rivali politici. Finì che i cileni e l’arbitro scesero in campo. E la partita iniziò, ma senza l’altra squadra. Un po’ di passaggi, il gol. Il Cile che si qualifica ai Mondiali giocando contro nessuno. Se i sovietici avessero perso o vinto scendendo in campo chi li avrebbe visti? Quel giorno mancavano 11 giocatori, al loro posto c’erano milioni di persone che osservavano da tutto il mondo.

Silenzio assordante

Per commemorare i vent’anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, il 6 aprile 2012 i bosniaci misero nella strada principale della città 11’451 sedie rosse, vuote. Una per ogni vittima. Nessuna folla avrebbe fatto più rumore. D’altronde, com’è che si dice, “silenzio assordante”.
Anche l’arte del Novecento ha flirtato con il vuoto, i dadaisti in primis, e poi i surrealisti, basti pensare a Magritte e ai suoi uomini sospesi per aria, e i realisti americani con in testa Edward Hopper. Joan Miró diceva: “Gli spazi vuoti, gli orizzonti vuoti, le pianure vuote, tutto ciò che è spoglio mi ha sempre impressionato”. Lui il vuoto lo cercava, lo desiderava, ma a suo modo lo riempiva anche, con la sua arte. È come se l’uomo, nella sua finitezza piena di difetti, volesse riempire il vuoto senza mai riuscirci davvero, arrivando al paradosso dei non-luoghi, così li coniò l’antropologo Marc Augé: centri commerciali, aeroporti, sale d’aspetto. Posti pieni di cose e di persone dominati però dal vuoto. Essere o non essere. Meglio ancora: esserci o non esserci, questo è il problema. Senza stare a scomodare Shakespeare, basta ricordare la telefonata di Nanni Moretti, nei panni di Michele, in Ecce bombo: “Che dici, vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate: ‘Michele vieni di là con noi, dai’. E io: ‘Andate, andate, vi raggiungo dopo’. Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo”. Pur di essere sicuro di esserci, Michele alla fine non è mica andato.

 

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