La fenomenologia dell’ombrellone (una storia di metodi e ruoli)

Complice il gran caldo, in quest’estate ormai agli sgoccioli c’è chi ha portato in spiaggia pratiche e fantasie bizzarre. Ma non fermiamoci alle apparenze

Di Duccio Canestrini

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, inserto allegato a laRegione

Si racconta di un tizio che ha steso un telo di 8 metri per 8, in modo da non avere vicini di sdraio. Oppure quello che ha modellato con la sabbia il divano di casa a grandezza naturale… In verità e come per il resto dell’anno, sono i comportamenti più normali quelli che si prestano a un “turistario” estivo-balneare. Perché per fare antropologia, non occorre andare in Amazzonia, si può esercitare ovunque, anche in vacanza al mare.

Vengo al punto: l’ombrellone, come si pianta, dove si pianta e chi lo pianta? Dico subito che piantare l’ombrellone sulla (poca) spiaggia libera è un gesto assertivo carico di una forte valenza simbolica, come piantare una bandierina, come erigere una pietra confinale, come delimitare idealmente un’area conquistata e privata. Piantare l’ombrellone non riguarda solo chi intende guadagnare un po’ d’ombra, ha implicazioni psicologiche e sociali. Gli ombrelloni non differiscono molto tra loro, sono con o senza i raggi, con la punta dell’asta filettata per una maggior penetrazione, oppure cava per operare una sorta di carotaggio nel terreno. Ormai tutti hanno l’asta bianca telescopica per regolarne l’altezza. Alcuni presentano uno snodo, così da poterli orientare come girasoli, senza doverli estirpare e ripiantare con il passare delle ore.


“3 notti d’amore”, una pellicola del 1964.

Dimmi come lo fai (e ti dirò chi sei)

Le tecniche popolarmente impiegate, invece, sono diverse. C’è chi trivella girando attorno al buco nella sabbia, con piccoli passi. C’è chi batte, chi manovra avanti e indietro come adoperando una leva, chi usa una paletta per fare un piccolo cono di rinforzo alla base, e chi “cementa” il buco con una secchiellata d’acqua. Fare il buco è un’azione decisiva, che però diventa una prova. Sarà abbastanza profondo? L’ombrellone terrà? Resisterà a un colpo di vento o ci cadrà sulla schiena con tutti i costumi bagnati appesi alle stecche? Per qualche legge non scritta piantare l’ombrellone tocca ai maschi. Questo le signore lo danno evidentemente per scontato. E, anzi, mentre il lui di turno si affanna, come abbiamo visto, loro conversano con le amiche, un tantino impazienti.
Piantare il palo è una dimostrazione di efficientismo virile, un ruolo che ha qualcosa di atavico. Quasi un rituale, tradizionalmente maschile. Mai e poi mai un fidanzato o un marito starebbero fermi a guardare. Ecco allora che l’operazione diventa una delicata e – di questi tempi controversa – questione di genere. Perché la prestazione può riuscire, ma anche no. Ecco. Adesso una signora accanto al mio asciugamano steso sulla sabbia, chiede scocciata al marito: “Hai finito?”, come se procurare la benedetta ombra fosse un lavoretto da sbrigare velocemente, e poi non riguardasse anche lei e i bambini. Insomma, certe cose vanno fatte, e non c’è dubbio su chi debba farlo, come in altre circostanze è il lavoraccio di montare le catene antineve. È una vecchia questione di cavalleria e di fiducia. Ma il problema, appunto, è fidarsi del coniuge, del figlio cresciutello o dell’amico. Ecco allora che non si parla più solo di ombrelloni, ma di affidabilità, di uomini e donne, in definitiva di relazioni. Una volta piantato l’ombrellone, di solito l’uomo (che probabilmente ha guidato in autostrada per alcune ore) schianta steso sull’asciugamano, mentre la compagna invia messaggi WhatsApp.


Anche in “Avventura a Capri” (1958) l’ombrellone ha un ruolo centrale.

Una questione di usi e relazioni

E veniamo al dove. Mentre echeggia la voce stentorea del venditore di cocco (con il suo immutabile richiamo: “Coccobello!”), una donna orientale si accovaccia accanto a una signora per proporle un massaggio, un gigante senegalese vende collane e foulard, un esile pakistano si aggira con un enorme pannello pieno di occhiali da sole. E anche qui, antropologia a mansalva. Perché la distanza fisica tra tutte queste persone è un fattore culturale, c’è chi non ci fa troppo caso e chi invece non sopporta affollamenti, “invasioni” (ma quali, dai!) e promiscuità. Dunque dove mettersi? Posizionarsi in spiaggia è una scelta tattica, per evitare che i bagnanti nell’andirivieni ti riempiano di sabbia, ma soprattutto per poter godere della massima vicinanza al mare. A costo di piazzarsi in pole position sulla battigia demaniale, davanti a chi si credeva già in prima fila. Esce così, per chi la sa leggere, la personalità dei nostri consimili, e qui andiamo sulla psicologia; c’è chi per educazione, o per arroganza congenita e ben coltivata, non rinuncia a primeggiare. Piantare l’ombrellone in definitiva è una performance che ha aspetti sociali, proprio perché si fa su una spiaggia. E la spiaggia, come tutti i bagnini – laureati ma lavoratori stagionali – sanno, è un teatro di rapporti umani, di maschere identitarie e nudità. Di orgogli e di vergogne. Di usi e costumi, in tutti i sensi.

DA (RI)VEDERE

L’ombrellone (regia di Dino Risi, 1965)
Satira balneare, con qualche frecciata ai nuovi ricchi e agli “intellettuali affamati”. Così lo liquida il Dizionario dei film di Mereghetti, che gli dà soltanto una stella e mezza. La storia è sempre quella: mariti, mogli e amanti. Eppure in questa coproduzione italo-franco-spagnola, certamente zeppa di luoghi comuni, c’è un interessante affresco sociale. Come già nel suo film più famoso Il sorpasso, Risi torna a raccontare una piccola borghesia italiana che si crede emancipata, appena nata ma già in crisi. Partendo a Ferragosto, da una Roma pressoché deserta, Enrico Maria Salerno raggiunge la moglie (Sandra Milo) sull’Adriatico, a Riccione. Dove una bolgia infernale di turisti, in strada e in spiaggia, fa pensare che l’overtourism non sia affatto un fenomeno recente. L’ombrellone in questo film diventa un simbolo fondamentale, il vessillo del territorio della vacanza. L’ombroso riparo da cui lanciare sguardi indiscreti, sperare in poco probabili appuntamenti, forgiare fantasie erotiche. Il tutto sulle note di “Sulla sabbia c’era lei”, hit del Cantagiro del 1965, cantata da Sonia e le Sorelle. Una lei bella da impazzire, in bikini a righe bianche e blu.

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