La sindrome del Titanic
Il Titanic è affondato il 15 aprile del 1912. Oltre un secolo dopo, la sua orchestrina continua a suonare imperterrita. Ovunque, anche a casa nostra.
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del venerdì nelle pagine de laRegione.
Oggi a cantare disinvolti mentre la nave punta dritto verso un iceberg chiamato coronavirus ci sono Bolsonaro e i fanatici degli assembramenti che sfidano i decreti d’emergenza dei governi europei. Prima di loro è toccato al popolo armeno, ai berlinesi, ai generali di Saddam Hussein e a Nicolae Ceaușescu. Perché – lo dice la storia – l’essere umano non solo non è in grado di fiutare da lontano il pericolo, ma – ancor peggio – non è in grado di razionalizzarlo nemmeno quando se lo trova sotto il naso. Pare che tutta questa miopia, se non addirittura cecità, abbia molto semplicemente a che fare con una cosa: la propria morte. E con il fatto che non la concepiamo per un motivo che definire banale è poco: siamo vivi, e morti non lo siamo mai stati. Insomma, pensiamo che in un modo o nell’altro ce la caveremo anche quando il cerchio si stringe. In psicologia si chiama autoinganno. È il nostro cervello che ci protegge dall’idea della morte, un’idea che potrebbe sopraffarci a tal punto da impedirci di vivere. Il che sarebbe contronatura esattamente come non morire. E quindi non c’è virus, terrorista, pallottola, vecchiaia o nazista che tenga. Pensare che sopravviveremo sempre e comunque è la nostra salvezza, perché sennò impazziremmo, ma – talvolta – anche la nostra condanna.
Un passaggio di Maschere per un massacro, in cui Paolo Rumiz racconta quella follia che fu la Guerra nei Balcani, è illuminante in questo senso: “Il sarajevese Sefer Hasanefendic (…) nel marzo del 1992 si stupì di fronte ai primi spari in città sul ponte di Vrbanja. Un mese dopo, ascoltando gli orrendi bollettini provenienti dalla Drina continuò a scuotere il capo dicendo: non è possibile. Non è che fosse sconvolto da una cosa mostruosa. Semplicemente non la credeva vera”. E ancora: “Tutte le mosse preparatorie del conflitto in Bosnia si sono svolte alla luce del sole. Alcune sono state provocatoriamente annunciate. Eppure quasi nessuno, in quella fatale primavera del ’92, vi prestò attenzione. Allora, la velocità impressionante della pulizia etnica fu resa possibile non solo dalla lunga, meticolosa preparazione, ma anche da questa incredulità delle vittime e della gente in generale”.
L’incredulità, quindi, perfino davanti a una serie di indizi inequivocabili. A proposito di pulizia etnica, nella Masseria delle allodole Antonia Arslan racconta molto bene l’escalation di violenza nei confronti della comunità armena da parte dei turchi, ma anche il continuo stupore delle vittime che, chiamate in prefettura senza un perché, non fuggono ma si mettono in fila ricordandosi e allo stesso tempo scacciando il pensiero dei massacri subiti pochi anni prima. Da quel momento la scia di morte inizia, prosegue, cresce andando a braccetto con l’incredulità. Come dire, fissi un punto dove oltre non si potrà arrivare, ma poi quel punto te lo ritrovi inevitabilmente alle spalle, e il peggio che non doveva arrivare è già arrivato. Anzi, non è più nemmeno il peggio.
Nell’estate del 1961, nella Berlino divisa della Guerra Fredda si parlava da mesi di un fantomatico muro a cui la gente non credeva, a Ovest come a Est. Lo tirarono su in una notte. Il 13 agosto i berlinesi si svegliarono separati e increduli, nonostante le avvisaglie ci fossero tutte. E se è vero che gridare continuamente “al lupo, al lupo” non serve, negare che ci sia un lupo in giro solo perché le pecore che ha ammazzato non sono le tue, serve ancora meno. Nella primavera del 2003 i generali iracheni non perdevano occasione di dire “gli americani non entreranno mai a Baghdad” quando gli americani erano già in marcia verso la capitale, dove in effetti arrivarono il 9 aprile.
Il 21 dicembre del 1989, con il blocco comunista già imploso e un Paese in subbuglio da giorni, il dittatore romeno Ceaușescu si ritrovò sommerso di fischi e insulti durante il suo discorso dal balcone presidenziale: il suo volto era talmente stupefatto da costringere la tv di stato a riprendere il cielo sopra Bucarest perché non si poteva riprendere la folla infuriata né la sua aria sorpresa. Tuttavia, quando da fuggiasco, insieme alla moglie, venne intercettato, arrestato e processato, continuò a insultare fino all’ultimo i suoi carcerieri convinto che l’avrebbe sfangata. Così, ovviamente, non fu.
L’incredulità davanti all’inevitabile è una reazione umana che, come abbiamo visto, colpisce le vittime dei dittatori e i dittatori stessi. Ma non solo. Nella serie tv Chernobyl viene mostrato lo stupore degli esperti davanti all’esplosione del reattore nucleare, che – nonostante avessero capito – negavano a loro stessi le conseguenze. Perché? Perché una tragedia di quelle proporzioni era troppo perfino per loro. Entrava nell’inimmaginabile anche per chi aveva gli strumenti per immaginarla.
Tornando a Sarajevo, nessuno poteva prevedere che quell’assedio sarebbe durato quasi quattro anni, più di quello di Leningrado, ma era così difficile prevedere che sarebbe iniziato? “Il 5 aprile del 1992 – scrive ancora Rumiz – una massa enorme di pacifisti entrò cantando nel rione occupato dai serbi, Grbavica, senza vedere che i cecchini erano lì sui tetti, pronti a uccidere. E difatti uccisero, senza difficoltà alcuna. E di nuovo, sul volto della prima vittima, la giovane Suada Dilberovic colpita sul ponte di Vrbanja, si dipinse quell’inconfondibile espressione di sbigottito stupore. Racconta Samir Koric, che l’accompagnava: “Oggi molta gente vi dirà che si sapeva che la guerra stava arrivando. Non è vero, io non lo immaginavo e nemmeno Suada”. Eppure, da giorni, c’erano i cecchini e c’era l’artiglieria serba schierata tutt’intorno le colline di Sarajevo. Non poteva essere, eppure è stato, perché non poteva essere altrimenti. Così ognuno si schianta contro il proprio iceberg.