Vite a giudizio: c’era una volta il ‘like’
A tutti, o quasi, piace piacere. Ma grazie alle reti sociali quest’istinto può amplificarsi fino a diventare un’ossessione. E se i like sparissero?
Di Palma Grano
In alcuni paesi il fenomeno è già diventato realtà. Lo scorso aprile, per il compleanno dei 9 anni di Instagram, in Canada gli utenti della rinomata piattaforma sociale si svegliarono privi della possibilità di mostrare ai loro follower quanti like avessero i loro selfie della serata precedente, le foto di concerti guardati attraverso la lente dello smartphone o ancora le pietanze prelibate e così ben decorate da meritare di andare a caccia di «mi piace» sul web. Per i canadesi iniziò la «dura» realtà di postare le foto senza avere un riconoscimento pubblico a suon di pollici all’insù. Lo scorso luglio anche in Italia è partita una sperimentazione al riguardo. Chissà che ne pensato i famosi blogger capitanati dalla giovane Chiara Ferragni?
Senza si sta meglio
A seguire le orme del Canada troviamo anche l’Irlanda, il Brasile, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone. Anche qui, quest’estate un campione di utenti ha potuto scegliere di non mostrare pubblicamente i like. Anche Facebook, proprietaria di Instagram, ha deciso di bloccare i «mi piace» per i suoi iscritti australiani. Al contrario che su Instagram, la transizione al mondo della foto «fine a sé stessa» su Facebook è lenta, poiché gran parte delle sue entrate pubblicitarie dipende dalle pubblicità, a loro volta basate sulla profilazione degli utenti ottenuta (anche) dai loro «mi piace». Quel che è certo è che gli studi sul fenomeno liking e i suoi effetti dimostrano che oltre il 44% degli utenti clicca, almeno una volta al giorno, su una delle tante faccette, sul pollice alzato o commenta una foto. Lo stesso studio del 2013 – condotto dal centro di ricerca indipendente PEW Research Center – mostra che il 29% delle donne e il 16% degli uomini sono più inclini a postare su Facebook quando possono ottenere l’approvazione altrui attraverso i «mi piace». L’indagine è stata condotta su un campione di utenti americani, ma risulta credibile anche alle nostre latitudini.
Vero è che entrambe le piattaforme potrebbero dare vita a un nuovo modello di social network non fondato sulla dittatura dei like. Dietro questa scelta pare ci sia un suggerimento da parte di psicologi che confermano l’impatto negativo dei like sull’autostima degli utenti, soprattutto i più giovani. La psicologa ticinese Nadia Nero nota: «L’eliminazione dei ‘mi piace’ è una buona misura. Durante l’adolescenza, l’immagine di sé è molto importante. Quindi non vedere i like che ricevono gli altri evita gli effetti negativi di paragoni con la popolarità dei compagni.
In effetti, la logica di essere costantemente validati e approvati dagli altri è una variabile molto importante per gli adolescenti, nonostante non sia l’unica. Può essere inoltre motivo di ansia, depressione o valutazione negativa del proprio corpo».
Meglio la ’qualità‘
La ricerca dell’Università della California del 2016 intitolata «Quanti like ho ricevuto? Avere uno scopo nella vita modera la relazione tra il feedback positivo delle reti sociali e l’autostima» ha dimostrato che quanti più like riceve una foto, più si attiva la struttura del cervello responsabile di farci sperimentare momenti di piacere intenso. Questa struttura è la stessa che gioca un ruolo nell’insorgenza delle dipendenze. Nel caso dei like non si arriva a parlare di una vera e propria dipendenza, eppure questo meccanismo costituisce un campanello d’allarme. Secondo i ricercatori Burrow e Rainone, gli effetti negativi sull’autostima dipenderebbero dal senso di purpose, dello scopo che ognuno di noi ritiene di avere nella vita: se si ha un obiettivo, allora il numero di like ci è più indifferente. È per questo motivo che i like hanno conseguenze peggiori sugli adolescenti.
Oltre ai motivi psicologici, Instagram vuole che i suoi iscritti si concentrino sulla qualità delle loro foto e meno sull’inseguimento del pollice alzato, del cuoricino o della faccetta felice. Sembrerebbe che il tipo di foto presente su questa piattaforma digitale sia principalmente limitato a pochi soggetti, come i paesaggi paradisiaci, le pietanze che sembrano dipinti, i classici selfie, le foto in bikini e poco più.
Per quanto riguarda Facebook, troviamo inoltre un cambio strategico dovuto ai danni arrecati alla piattaforma dallo scandalo di Cambridge Analytica. Questa ditta aveva accesso ai dati degli utenti a fini di ricerca, ma li utilizzò per scopi commerciali, danneggiando così l’immagine di Facebook.
Avere, essere o piacere
Diverse domande restano aperte: questa misura sarà veramente efficace per un utilizzo più salutare delle reti sociali? Quali saranno le potenziali reazioni delle marche e degli influencer che le promuovono? Motivi e quesiti a parte, chissà che non inizi un’era in cui canzoni come «Occidentali’s Karma» di Gabbani o «L’esercito del selfie» di Takagi & Ketra diventeranno demodé.
In ultima battuta, se la canzone di Gabbani diceva «essere o dover essere il dubbio amletico», i like in questo potrebbero aver contribuito al dilemma anteponendo un’identità virtuale che spesso non corrisponde a quella reale. Forse è meglio iniziare a risolvere un’altra deriva del dilemma amletico, l’«avere o essere» del sociologo e psicanalista Erich Fromm. L’urgenza attuale a livello climatico ci inviterebbe a un certo minimalismo sul piano materiale, sul piano dell’avere.
Che ne dite? «Vi piace»? Dai?! Mettetemi almeno un like.