Cristiani, fate spazio alla Buona Novella
Per ricucire la frattura tra cristianesimo e società moderna serve un profondo impegno delle istituzioni religiose. Ma soprattutto di chi ancora crede.
Di Roberto Roveda
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Un grande filosofo come Benedetto Croce intitolò un suo saggio del 1942 Perché non possiamo non dirci «cristiani», un titolo che voleva sottolineare il legame profondo tra civiltà europea e cristianesimo. Per secoli, infatti, la religione cristiana e l’Europa hanno viaggiato letteralmente a braccetto fino a che, negli ultimi due secoli e in maniera più decisa nell’ultimo cinquantennio, si è consumato un lento divorzio tra molti cittadini e la loro religione storica. Un fenomeno nuovo in Occidente perché per la prima volta dopo quasi duemila anni il cristianesimo pare oggi non riuscire più a colloquiare in maniera feconda con il suo popolo, neppure con quel 75% della popolazione in tutta Europa che si definisce, almeno nominalmente, cristiana. Il fenomeno pare, inoltre, ancora più evidente quando andiamo ad analizzare i rapporti sempre più complicati tra la società civile e la Chiesa cattolica.
Una fede ottimista
Nonostante l’innegabile carisma di papa Francesco la Chiesa appare spesso invecchiata e impacciata. I suoi insegnamenti non sembrano più tenere il passo del nostro tempo e, soprattutto tra le nuove generazioni, la questione religiosa sembra non avere più rilevanza, sostituita dalla fede nella scienza e nel progresso della tecnologia, quest’ultima considerata alla stregua di una divinità capace di donare un futuro migliore all’umanità. Viene da chiedersi allora se ci sia spazio nella nostra società iper-secolarizzata per un messaggio come quello cristiano, che non sempre va d’accordo con gli idoli del mondo contemporaneo: la scienza e, soprattutto, la tecnologia. Insomma, esiste ancora un nesso tra il destino delle nostre società e le vicende del cristianesimo?
Prima di tutto è necessario superare la convinzione che cristianesimo e modernità non possano convivere. La modernità, infatti, è anche figlia del messaggio cristiano, perché temi come la dignità della persona umana, la libertà dell’individuo, l’autodeterminazione della coscienza sono stati affrontati prima di tutto in ambito cristiano. Recuperare quindi un legame fecondo tra modernità e cristianesimo ci può servire a smuovere tanta stagnazione che stiamo vivendo, a riportare l’uomo, la sua dignità al centro di ogni discorso in un’epoca in cui prevalgono le logiche dell’economia, del profitto e in cui il pensiero tecnologico tende a spazzare via ogni retaggio di umanesimo.
Perché questo avvenga, naturalmente il cristianesimo dovrà essere capace di leggere i segni dei tempi, deve dimostrare di non guardare solo al passato, alle tradizioni, alla dottrina. Non potrà essere dominato da un rimpianto per un tempo in cui si assisteva a una sorta di egemonia della religione cristiana. Bisogna forse fare proprie le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nel 1978 nella sua prima omelia da pontefice: «Non abbiate paura». Bisogna non avere paura del cambiamento, del dialogo, della contrapposizione di vedute. Bisogna ritrovare una fiducia in Dio, nella propria fede e soprattutto nell’uomo, una fede che anche tra i credenti e tra i ministri del clero pare appannata.
C’è eccessiva timidezza nell’essere cristiani di troppi di noi: molto conformismo e troppo poco ottimismo e gioia di vivere. Valgono le celebri parole di un filosofo non certo tenero con la religione come Friedrich Nietzsche, che rivolgendosi ai cristiani diceva: «Se la vostra fede vi rende beati, datevi da conoscere come beati! Se la lieta novella della vostra Bibbia vi stesse scritta in faccia, non avreste bisogno di imporre così rigidamente la fede». Ecco il punto: i cristiani devono ritrovare la certezza che il messaggio di Cristo ha ancora molto da offrire, da dare al suo popolo. Offrire, dare, senza imporre né pretendere, che sono verbi che non si addicono a un vero cristianesimo.
Agire nel concreto
E si ha molto da offrire se da cristiani ci si ricorda che la propria religione è incarnazione nel mondo, non isolamento o semplice tensione verso la spiritualità. Se il cristianesimo si dimentica di essere sale della terra, luce del mondo, per usare parole evangeliche, allora non ha più senso. Il dogma fondamentale del messaggio cristiano è che Dio si fa carne, scende sulla Terra, cammina tra gli uomini, soffre e gioisce con loro. Questa è l’unica strada se vogliamo che il messaggio cristiano ritorni a essere fecondo per la società europea. E, a mio parere, se l’Occidente e l’Europa non possono più contare sull’apporto della loro religione storica perdono alcune delle coordinate interiori e spirituali su cui si basano. Allora si diffondono lo scetticismo, la corruzione, la noia, la ricerca di emozioni fini a loro stesse.
Ritornare alle radici
Naturalmente per recuperare il legame con la modernità, il messaggio cristiano si deve liberare di quelle ‘incrostazioni’ del passato che rendono la comunicazione con il mondo moderno poco efficace. Il cristianesimo ha un grande messaggio di pienezza, avventura, comunione, incontro tra le differenze che può incidere positivamente in molti ambiti. Bisogna, però, liberarsi dalle preoccupazioni per una purezza dottrinale che ha poco a che fare con il messaggio del Vangelo. Gesù non faceva altro che criticare scribi e farisei e ripetere che il messaggio è solo uno: amate Dio e amatevi tra voi. Il resto o aiuta a realizzare questo insegnamento oppure diventa un impedimento, un ostacolo che toglie speranza perché ci fa sentire inadeguati a un modello astratto e quindi irrealizzabile. Viceversa, il cristianesimo è una via che esalta le possibilità dell’uomo. È una via che celebra l’umanità perché io, essere umano, per andare a Dio non devo uscire da me stesso, ma devo prendere in mano totalmente il mio essere uomo e proseguirlo fino in fondo, fino a incontrare il Padre. Per un messaggio di questo tipo c’è un enorme spazio, perché l’uomo moderno ha bisogno di riconciliarsi con sé stesso, di riscoprire la sua vicinanza con il divino, con il sacro, la sua prossimità a Dio.
Noi tutti dobbiamo riconoscere che anche il nostro spirito, come il corpo e la psiche, può avere delle malattie. Invece delle malattie spirituali non se ne parla, non ci si rende conto neanche che esistano. E la malattia che affligge lo spirito nel nostro tempo è la sfiducia rispetto a sé stessi e a questa sfiducia il cristianesimo offre come detto una risposta.
Le buone pratiche
È necessario ritrovare una credibilità nel proporre il messaggio cristiano, perché il fondamento di ogni vita spirituale è sempre la sincerità, di fronte a noi stessi, a Dio e al nostro prossimo. Dovremmo guardarci negli occhi, non nascondere i problemi; farli emergere, comprendere che cosa stiamo facendo, qual è il senso della nostra esistenza. Chiederci se da cristiani siamo in grado di trasmettere ancora della speranza e fare del bene. Nella speranza che essere cattolici o protestanti non sia diventata solo una delle molte appartenenze assai formali (ma con scarsa convinzione) al nostro quotidiano.
La fede non è (e non può essere) solo formale appartenenza: deve fondarsi sulla fiducia – in base alla quale poi si agisce –, a volte anche contro il proprio interesse. E questo in modo quasi profetico, per costruire un futuro e una società più giuste. La fede deve essere intesa come fiducia che genera una pratica retta, giusta. Sono la buona pratica e le buone azioni a rendere la religione capace di dare ‘sapore’ alla vita. Migliorandola. La nostra stessa esistenza e le nostre società possono essere migliori se non si cede al ritrito disfattismo, al pessimismo, e finiamo di coltivare quel masochistico piacere nel vedere il male e il peggio ovunque. Non è certo la strada per provare a costruire un mondo, chissà, veramente ‘migliore’.
L’APPROFONDIMENTO – Cattolici: il coraggio di mettersi in gioco
Superare rapidamente la contrapposizione assoluta tra modernità e religione: è questo quanto serve per ritrovare un legame tra cristianesimo e società. Lo sostiene la sociologa Chiara Giaccardi, autrice assieme a Mauro Magatti del saggio La scommessa cattolica (il Mulino, 2019). Ma è possibile?
«Sì, se non si rimpiange un bel tempo che fu, che tanto bello non era. Bisogna avere il coraggio di scrivere pagine nuove nel rapporto tra modernità e religione cattolica».
Cosa si dovrebbe scrivere di nuovo?
«Prima di tutto bisogna affrontare il tema della libertà perché la Chiesa ha sempre fatto fatica a confrontarsi con questo tema, puntando piuttosto sul controllo delle coscienze. Invece proprio sulla libertà il cattolicesimo ha molto da dire nel nostro tempo».
Ci spieghi meglio…
«Ogni uomo ha connaturato dentro di sé il desiderio di superare i limiti imposti dalla natura umana, raggiungendo una sorta di pienezza. La modernità risponde a questo desiderio con l’eccesso, cioè con la moltiplicazione quantitativa delle possibilità. Alla fine, però, non si è mai soddisfatti».
Esiste una risposta diversa?
«Si può rispondere in maniera qualitativa, con quella che nel libro chiamo ‘eccedenza’. Dobbiamo reimparare a superare il nostro individualismo, sbilanciarci fuori da noi stessi. Dobbiamo reimparare a rischiare, a non avere tutto sotto controllo, a metterci in gioco per noi stessi e soprattutto per gli altri. La vita sulle orme del cattolicesimo è una vita di avventura, di rischio, dove nulla è già predefinito e sicuro, come nelle pseudo-certezze che ci vengono offerte dalla tecnica e dalla scienza».
Slancio e non paura?
«La paura si vince aprendosi alla sfida del confronto con la diversità ed evitando contrapposizioni sterili. La fede non è un’ideologia, non è un’adesione a una dottrina. È affidamento, è una relazione in cui ci si mette in gioco e che ci trasforma. Semplicemente non dobbiamo aver paura di rischiare e di entrare in questa relazione».
Ma così non si perde concretezza?
«No, la fede è qualcosa di molto concreto, è un cammino, un muoversi verso qualcosa, un inseguire che si realizza nella vita di tutti i giorni. Mi viene in mente un verso della poetessa Emily Dickinson: ‘Chi non ha trovato il cielo quaggiù, lo mancherà anche lassù’».
LE CIFRE – DOVE VA LA SVIZZERA?
Secondo i dati più recenti (2017) dell’Ufficio federale di statistica, anche in Svizzera come nel resto d’Europa sta crescendo rapidamente il numero di coloro che dichiarano di non appartenere a nessuna religione: era l’11,4% degli elvetici nel 2000 ed è diventato il 24,9% nel 2016. I cattolici sono scesi nello stesso periodo dal 42,3% al 36,5 mentre i protestanti sono passati dal 33,9% della popolazione residente nella Confederazione all’inizio del millennio al 24,5% tre anni fa. A questi dati fa da corollario una sempre minore partecipazione degli svizzeri alle funzioni religiose. Parallelamente, feste patronali e processioni sono ancora considerate elementi dell’identità e della tradizione elvetica, così come lo sono i campanili sulle chiese, la croce che campeggia nella bandiera e l’inno nazionale. Che è, ricordiamolo, un salmo di invocazione a Dio.
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Note sull’autore dell’articolo
Roberto Roveda (1970) è laureato in Storia della Chiesa medievale e in Storia del cristianesimo all’Università degli studi di Milano. Dal 2008 collaboratore di Ticino7, è autore e consulente in ambito storico per la case editrici Pearson, De-Agostini, Principato e Rizzoli. Scrive per i periodici Limes e Focus Storia.