Ecoansia: soffrire con il pianeta

I giovani e il peso psicologico di un mondo che per molti è destinato a sparire. Una ‘psicosi’ necessaria per cambiare il corso degli eventi?

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

E perché dovrei formarmi per un futuro che non ci sarà, quando nessuno sta facendo niente per salvarlo, quel futuro?’, affermava nell’autunno 2018 la giovane attivista Greta Thunberg.
Già, il futuro… Nel 1977, quattro decenni prima che Greta Thunberg tenesse il suo discorso al TEDxStockholm da cui abbiamo tratto la frase nel nostro sottotitolo, anche i Sex Pistols affermavano – meglio, strillavano – che non c’era più il futuro («God save the queen / She ain’t no human being / And there’s no future / In England’s dreaming»). Analogamente a quelli di oggi, i ragazzi di allora contestavano le istituzioni – anche se per ragioni diverse da quelle ambientaliste – ma in una forma (musicale e poi culturale) dichiaratamente nichilista, che individuava nell’auto e nell’eterodistruzione l’unica forma efficace di ribellione. 
I ragazzi di oggi, invece, protestano con azioni dimostrative non-violente mutuate direttamente dai movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, ovvero la forma di contestazione più costruttiva di cui si disponga in democrazia. La situazione pare dunque essersi ribaltata: ora che l’auto-distruzione è diventata un’eventualità da scongiurare, non c’è più spazio per la cupio dissolvi. Perché adesso ciò a cui i giovani si ribellano è proprio il pericolo di estinzione – nostra e delle altre specie – comportato dal cambiamento climatico. Chi avrebbe pensato che la prospettiva sarebbe mutata così in fretta, e in maniera così drastica? 

Sempre più caldo, fidatevi
Il fatto è che le cose stanno cambiando rapidamente, e non certo per il meglio. A partire dalla Prima rivoluzione industriale, l’impatto antropico sul pianeta ha determinato un aumento medio delle temperature di 1,1 gradi, condensato in gran parte negli ultimi 35 anni. Globalmente, gli ultimi 4 anni sono stati i più caldi in assoluto (World Meterological Organization, 6/2/’19), apoteosi di un’escalation che da 22 anni a questa parte non conosce battute d’arresto (WMO, 29/11/’18). «La nostra casa è in fiamme», come dichiara il titolo del libro-manifesto di Greta Thunberg, e le conseguenze sono ben note: scioglimento dei ghiacciai e innalzamento del livello degli oceani, desertificazione, incendi, riduzione delle riserve d’acqua e dei raccolti, fenomeni climatici estremi (uragani, siccità ecc.), movimenti migratori massicci e ingovernabili, malattie, aumento del rischio che si scatenino conflitti in seguito al progressivo depauperamento delle risorse naturali. 
No, non è un quadro incoraggiante, e l’unico motivo che consente a noi adulti di non sprofondare nell’angoscia è il reiterato e ormai automatico ricorso alla negazione. Un dispositivo, quello del diniego, che presso i ragazzi non è altrettanto ben rodato. Nessuna meraviglia, quindi, che i Fridays for Future (vedi più in basso, ndr) siano dilagati con la velocità di una fuoriuscita di petrolio da una piattaforma in cattivo stato di manutenzione. 
È trascorso solo un anno da quando Greta ha iniziato a protestare davanti alla sede del parlamento svedese per denunciare l’inerzia del mondo nell’affrontare questo tema. Attraverso Instagram e Twitter, moltissimi ragazzi come lei hanno unito la loro voce alla protesta e il passaparola ha assunto proporzioni tali per cui, il 15 marzo scorso, 1,4 milioni di studenti dislocati in circa duemila città di tutto il mondo sono scesi in piazza per richiamare l’attenzione di quegli adulti che sembrano incapaci di tutelare il loro futuro. 

Presa di coscienza
Alcuni si chiedono come una ragazzina da sola – Greta ha iniziato a protestare a 15 anni – sia riuscita a ottenere in così poco tempo tale riscontro. Gli inevitabili dietrologi sussurrano di macchinazioni e frodi, mentre i qualunquisti parlano di «marketing virale» reso possibile dai superpoteri dei nuovi social media. È un po’ come quando qualcuno cerca di propinarvi la ricetta per scrivere un bestseller: non credetegli, non esiste; «semplicemente», accade che qualche volta qualcuno scriva o parli (nel modo giusto) di qualcosa a cui tutti, consapevolmente o meno, stavano pensando in quel momento. La realtà è che la gente ha paura, e soprattutto ne hanno i ragazzi, sia perché appunto sono meno abituati a denegare sia in ragione del fatto che è il loro futuro, soprattutto, a essere in gioco. 
Si vede dalle piccole cose, che sono preoccupati. Per esempio, dal fatto che bevano l’acqua da bottigliette di alluminio che portano sempre con loro, e che ti guardino strano se la tua di acqua, invece, sta in una bottiglia di plastica. O dalla scelta di smettere di mangiare carne non tanto, o non solo, per motivi etici e salutistici, ma soprattutto – come t’informano guardandoti dritto negli occhi – perché l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi è tale da costituire una delle prime cause del riscaldamento globale. O quando, in maniera più eclatante, ti confidano di non avere interesse nell’acquistare una casa perché magari fra cinquant’anni il luogo in cui l’hanno comprata non sarà più agibile. Ma qual è la linea di demarcazione fra una sana e realistica preoccupazione, propedeutica all’intraprendere azioni di cambiamento costruttive, e lo sviluppo di sintomi ansiosi e/o depressivi che finiscono per paralizzare l’iniziativa? 

L’ecoansia e l’ecocidio
In ambito psicologico, da qualche anno a questa parte si è iniziato a parlare di «ecoansia» per riferirsi a forme sub-cliniche di inquietudine, senso di colpa e depressione suscitate dal pensiero del cambiamento climatico e di altre criticità ambientali. David W. Kidner, autore di Nature and experience in the culture of delusion (2012), afferma che la perdita del senso di sicurezza generato dal progressivo degrado ambientale sia stata sottostimata dagli approcci scientifici tradizionali, i quali solo recentemente hanno iniziato a introdurre nel proprio lessico termini quali «ecocidio» o «zoomafia». Altri commentatori hanno definito la mancanza d’iniziativa nel proteggere l’ambiente in termini di «apatia», ma psicologi come R. Randall (Loss and climate change: The cost of parallel narratives, 2009) e R. Lertzman (The myth of apathy: Psychoanalytic explorations of environmental degradation, 2010) sostengono che questa strana paralisi sia in realtà una reazione di «congelamento» (freezing) generata dalle dimensioni del problema. In sostanza, il cambiamento climatico ci fa così paura che mettiamo in atto processi difensivi inconsci per proteggerci; per esempio, negando inconsciamente parte della realtà o dissociando il dato cognitivo dalle emozioni associate (inquietudine, angoscia, senso d’impotenza ecc.). Ne scaturirebbe un torpore atto a schermarci dalla minaccia che incombe su di noi, e dalla percezione d’impotenza che ne deriva. Ed è qui che si gioca la partita – psicologica, ma non solo – fra sano e patologico
«Non considero l’ansia relativa al cambiamento climatico come un problema da risolvere o una patologia da curare», afferma Steffi Bednarek, psicoterapeuta specializzata nel tema («Is there a therapy for climate-change anxiety?», Therapy Today, 2019). «La realtà che stiamo contemplando fa oggettivamente paura e l’ansia che ne deriva è comprensibile e coerente. Il punto è come ci impegniamo, a livello collettivo, per risolvere questa crisi». Maria Ojala, professore associato dell’Università di Örebro (Svezia), ha condotto delle ricerche su come i giovani pensano, sentono e comunicano i problemi ambientali, dimostrando che c’è una relazione dialettica fra speranza e preoccupazione suscettibile di motivare, o meno, un comportamento pro-ambiente: se la preoccupazione è realistica, e lascia spazio alla speranza di un cambiamento, i ragazzi si attivano in maniera costruttiva; se invece eccede, sfocia in disperazione e l’esito può essere la rinuncia. 

Prima della fine
In conclusione, se un certo grado di apprensione è cruciale per innescare e sostenere il cambiamento, un’eccessiva discrepanza percepita fra l’entità del problema e la possibilità di porvi rimedio può rivelarsi paralizzante, anche presso i giovani (Ojala, 2015). Secondo Bednarek, la resilienza di un individuo nel fronteggiare eventi critici o stressanti è maggiore se si è inseriti in reti sociali forti, caratterizzate da legami che supportano. In questa prospettiva, la mobilitazione degli studenti, il loro connettersi globalmente in vista di uno scopo comune, rappresenta quindi un’ottima strategia per contrastare gli effetti devastanti del cambiamento climatico, non solo sul piano della biodiversità e della geofisica, ma anche su quello della salute psicologica.

I RAGAZZI NON SONO SOLI
Per fortuna i giovani non sono stati lasciati completamente soli nella mobilitazione contro il riscaldamento globale. Extinction Rebellion è un movimento socio-politico fondato in Inghilterra nel 2018 dagli attivisti Roger Hallam e Gail Bradbrook. Supportato da un centinaio di accademici che nell’ottobre dello stesso anno hanno lanciato una «call to action», Extinction Rebellion ha tre obiettivi principali: 
1. che il governo dichiari lo stato di emergenza climatica ed ecologica, e che cominci a lavorare a livello istituzionale in tal senso; 
2. che il governo agisca immediatamente per fermare la perdita di biodiversità (si calcola che, ogni giorno, fino a 200 specie si estinguano a causa dei cambiamenti climatici) e affinché le emissioni di gas-serra siano pari a zero entro il 2025; 
3. che il governo istituisca e si sottoponga, in materia di clima e di giustizia ecologica, alle delibere di un’assemblea popolare.
Le azioni di disobbedienza civile attuate da Extinction Rebellion prendono spesso la forma originale e provocatoria del flash mob. Una delle modalità più utilizzate è quella del die-in, «fatale» evoluzione del sit-in, nel quale i partecipanti si sdraiano lungo le strade fingendosi morti per bloccare il traffico cittadino. E ci rimangono fino a quando la polizia non li porta via di peso, considerato che un’alta percentuale di attivisti dichiara di essere disposta a farsi arrestare per sensibilizzare l’opinione pubblica. Così è stato il 12 novembre 2018, quando il movimento ha occupato i cinque più importanti ponti di Londra, dispiegando sul Westminister Bridge uno striscione che riportava il loro simbolo (una clessidra stilizzata) accanto al sillogismo «Climate change – We’re fucked». In quell’occasione ne sono stati arrestati 85. Ciononostante, due giorni dopo alcuni si sono incollati ai cancelli di Downing Street e, quello successivo, altri hanno bloccato l’accesso a Trafalgar Square, in prossimità dell’ambasciata brasiliana. Il 9 marzo 2019, invece, è stata messa in scena una protesta denominata «Il sangue dei nostri bambini»: 400 attivisti hanno versato – di nuovo in Downing Street, di fronte alla residenza del Primo Ministro inglese – 200 litri di sangue finto per denunciare la perdita di vite umane (e non) comportata dal riscaldamento globale. Per ulteriori informazioni: rebellion.earth.

20-27 SETTEMBRE: LA SETTIMANA DELLO SCIOPERO
Da oggi, 20 settembre, scatta una settimana di scioperi e manifestazioni a livello globale organizzata dal movimento dei giovani per il clima Fridays For Future, per sensibilizzare la popolazione sulla crisi climatica e chiedere azioni concrete a governi e imprese. Il sito del movimento internazionale ispirato da Greta Thunberg parla di “oltre 2400 eventi” per la #WeekForFuture, in “oltre 115 paesi e 1000 città”. Fra gli appuntamenti da segnalare, la manifestazione a New York del 20 settembre, con la presenza della stessa Greta. Durante la settimana si terranno iniziative di vario genere: sit-in, cortei, concerti, assemblee ed eventi come #BellForFuture, #TreesForFuture, #ScientistsForFuture, #ResearchersDesk. Sabato 21 settembre sarà il World Clean Up Day, dove i volontari ripuliranno alcuni luoghi degradati. Nella UE gli attivisti chiederanno simbolicamente ai governi un pagamento di 10 euro all’ora per la rimozione della spazzatura. Domenica 22 settembre ci sarà laGiornata senza auto (#CarFreeDay) con la manifestazione delle biciclette (#BikeStrikes). Fra i paesi più coinvolti nella settimana ci sono gli Stati Uniti, con 145 città che hanno già annunciato iniziative, e l’India, con 72 città. La #WeekForFuture avviene in contemporanea con il vertice ONU sul clima Climate Action Summit 2019, il 21 e 23 settembre, al quale parteciperà anche Greta. L’attivista svedese chiuderà la settimana venerdì 27 settembre, partecipando allo sciopero del clima di Montreal (Canada). 

28 SETTEMBRE: BERNA E IL CLIMA
Sabato prossimo, 28 settembre, a Berna si terrà una manifestazione nazionale per il clima: perché le decisioni dei politici “ora e negli anni a venire, riguarderanno niente meno che il futuro delle fondamenta della vita” scrivono i promotori. L’appuntamento è alla Schützenmatte (accanto alla stazione centrale di Berna) e dalle 14 un corteo si muoverà verso Piazza Federale. Per saperne di più e tutti gli aggiornamenti sull’evento e il programma: klimademo.ch

 

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