La normalità vista da Marco Torri

Assistente sociale ed educatore, è convinto che le etichette giochino solo a favore dell’emarginazione. Giudicare gli altri è sin troppo facile.

Di Samantha Dresti

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Si può parlare di tutto con Marco Torri, oggi educatore (ma con una formazione quale assistente sociale) all’Istituto San Nicolao a Bidogno. E si percepisce subito che lui sulla comunicazione lavora parecchio: «La realtà è creata dal modo in cui usiamo le parole», e le sue devono aiutare, sorreggere, permettere di osservare le cose in modo positivo.  «Sono un po’ come un prete» dice scherzando, anche se chiarisce subito che in realtà a lui la religione non piace granché. Forse un retaggio legato alla storia della sua professione: «In passato coloro che sostenevano le persone in difficoltà erano molto spesso dei religiosi».

Questioni di concetto 

Lo scopo del suo lavoro è aiutare le persone a vivere meglio rispetto alle condizioni in cui si trovano: sia chi è ben integrato – ma che vive un momento di difficoltà – sia chi è colpito da una disabilità, e ha dunque bisogno di un sostegno continuo. «Bisognerebbe però fare una precisazione sul termine disabilità: nel modello medico l’essere umano è ‘normale’ se rispetta tutta una serie di caratteristiche fisiche e mentali. La normalità è un concetto, non è la realtà: è, per così dire, la media delle capacità di tutte le persone. Il nostro modello medico ci dice che se una persona non riesce a parlare o a camminare, per esempio, il problema è in quella persona. Oggi invece si tende a porre l’attenzione sull’interazione tra il soggetto e l’ambiente; la disabilità, in questo caso, esiste unicamente in relazione all’ambiente. Se il mondo è tutto a gradini, chi si trova in sedia a rotelle è per forza disabile, perché la scala è una barriera insormontabile. Ma se il mondo è fatto a rampe quella disabilità smette di esistere. È un piccolo esempio, più complicato è certo modificare l’ambiente per persone con caratteristiche ancora più debilitanti. La nostra professione significa anche osservare questa relazione tra persona e ambiente per suggerire possibili cambiamenti che permettano l’inclusione territoriale e sociale di tutti».

Abbattere le ’opinioni‘

Secondo Marco una delle attitudini più importanti che bisogna coltivare per svolgere al meglio questa professione è la sospensione del giudizio: «Nel mio lavoro dobbiamo sempre stare molto attenti quando parliamo o quando scriviamo i nostri rapporti, nel senso che non dobbiamo mai essere giudicanti: se vedo qualcuno che sorride, non posso scrivere ‘questa persona è felice’, bensì ‘questa persona sorride’. Insomma, è necessario sospendere il giudizio su ciò che gli altri pensano o fanno e lavorare in modo pragmatico, essere in grado di accogliere e di lavorare con chiunque». Anche nel caso di profili molto problematici come possono essere i pedofili, che rimangono ostici e complessi da affrontare anche per gli specialisti: «È necessario cercare di limitare gli impulsi interni che magari ti suggeriscono le cose peggiori su questa persona», dice Marco. «Se la legge ti dà il diritto di fare una cosa, vale a dire di aiutare una persona con questo disturbo/comportamento, l’operatore sociale deve rispettare questo diritto, anche se va contro la sua morale personale. Non bisogna mai credere di avere in mano la verità». 
Le etichette, si sa, generano il noto «effetto Pigmalione»: la persona fatica a districarsi dall’idea che ci si è fatti di lei, e questo rischia di bloccare ogni cambiamento. È invece necessario vedere la vita sotto una luce nuova ogni giorno, cercare di guardare il futuro liberi dal pregiudizio su sé stessi e quello degli altri: ciò che sei ora sovente non è quello che sei stato in passato. Né quello che sarai in futuro. 

I vissuti formano

Chiedo a Marco se ricorda la prima volta in cui si è preso cura di qualcuno. Prima di rispondere tentenna un po’, poi rivela in modo sereno: «Di mia madre. Da bambino ho assistito a diverse scene di violenza domestica, urla, pianti… Mi sentivo già in dovere di aiutarla e sostenerla, e quindi per alcune cose sono cresciuto molto in fretta. La situazione familiare era difficile: mia madre lavorava durante il giorno e frequentava una scuola serale, quindi capitava che io spesso badassi a mio fratello, più piccolo di me. Credo che in qualche modo chi lavora negli ambiti sociali abbia fatto questa scelta per capire meglio sé stesso, la sua storia: è la ‘vocazione originaria’, il tuo passato ti spinge a indagare su di te. Sicuramente a me è successo questo. Ma il dolore vissuto nell’infanzia si può trasformare in una ricchezza in grado di aiutare gli altri».

IL PERSONAGGIO

Marco Torri ha trascorso la sua infanzia tra il Sottoceneri e l’Italia. Oggi vive a Lugano e svolge del volontariato presso l’associazione Atgabbes. Ha avuto voglia di ricominciare a studiare a 33 anni: «Non è stato facilissimo. Mi vengono in mente quei genitori preoccupati per i figli adolescenti che non sanno che strada prendere: li capisco, viviamo in una società dove è difficile sapere a 15 anni cosa farai da grande… ma per fortuna esistono la riqualifica professionale e le borse di studio». La sua tesi di laurea ha un titolo provocatorio: Perché gli assistenti sociali proteggono i bambini?, dove analizza gli aspetti che portano alla revoca della custodia genitoriale. 

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